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Reale e virtuale, pietra e pixel

Arte digitale tra natura, tecnologia e memoria storica: a Castel Grande le visioni di Dirk Koy, il nuovo linguaggio a un passo dai musei d’arte

Un estratto da ‘Intersect’. La mostra è aperta fino al 9 novembre. Eventi collaterali su www.muda.co/events
19 luglio 2025
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Cari, vecchi occhialini 3D, che negli anni Cinquanta spopolarono, rendendo l’esperienza cinematografica ‘estrema’. Fa specie vederli all’entrata di ‘Dirk Koy. Arte digitale tra natura, tecnologia e memoria storica’, mostra dell’artista svizzero alle cui opere – da oggi al 9 novembre – si aggiungono lavori di Esther Hunziker, Sabine Hertig, Andreas Gysin e Sidi Vanetti. Il primo visore stereoscopico risale addirittura alla metà dell’Ottocento, ma l’invenzione sopravvive ed è decisiva in parte di questa esposizione.

Castel Grande a Bellinzona ospita una proposta avveniristica per un museo, ma attualissima al tempo stesso, sotto l’egida del Muda, il Museo di arte digitale di Zurigo. È un’iniziativa della Digital Arts Association, organizzazione no profit che si dedica all’arte del codice e dei numeri. Nel febbraio del 2026 il Muda compirà dieci anni e con la mostra di Bellinzona inaugura una propria fase espositiva fuori dai confini originari.

Centro del tutto è Dirk Koy, classe 1977, artista con base a Basilea e uno studio proprio nella città sul Reno. Ha esposto in mezzo mondo, da Seul e Los Angeles a San Paolo del Brasile, ha vinto premi come il Prix Ars Electronica 2012, il Visual Music Award nel 2015, il Basel Media Art Prize nel 2019, il Prix du film ‘Off limits’ ad Annecy nel 2022. 2D, 3D, droni, fotogrammetria, scansione 3D, realtà aumentata e virtuale sono i suoi campi di azione, coordinati da una innata capacità manipolatoria (a livello di software, s’intende) che ne fanno un avanguardista. Le opere di Koy incrociano digitalmente grafica, fotografia e video, e indirettamente fondono reale e virtuale, analogico e digitale, estraendo da quest’ultimo ogni potenzialità ‘pittorica’ estraibile.

Ibridi e utopie

Nel buio della Sala Arsenale, Koy ci porta nelle sue visioni partendo dalle ‘Hybrid Series’, una ramificazione di piccoli schermi che riportano ognuno il frutto di esperienze senza rendering, risultato di cuffie Vr e controller di movimento applicati al reale, per un risultato (ibrido, appunto) che vede Koy ‘disegnare’ su oggetti della quotidianità, siano essi un covone di fieno (ticinese) oppure oggetti industriali. Poco più in là si ammirano gli atleti delle ‘Fixed Series’, in movimenti che capovolgono le leggi della fisica (ginnasti ruotanti, apparentemente, sul proprio asse con lo spazio circostante a muoversi in una sorta di ‘controfase’). Affascinanti sono pure le ‘Shape Study Series’, immagini in movimento di auto, apparecchi domestici e altri protagonisti della nostra quotidianità in un morphing di droni, video, fotografia e animazione 3D. La prima stanza contiene anche ‘Utopia 01’, primo capitolo della trasformazione di ambienti urbani in dipinti, in questo caso con partenza da un terreno cittadino.


C’era una volta l’analogico

Su gli occhiali

La seconda sala è quella per la quale ci viene chiesto di indossare gli occhialetti. Solo così si può vivere ‘Island’, ecosistema digitale nel quale una pianta virtuale cresce tra elementi del mondo reale, e il tutto pare reale. E il reale quello vero arriva da filmati girati in riva al mare a Fiumicino, in Italia, insieme a elementi naturali ripresi nella Foresta Nera, in Germania. Nella stessa stanza, ‘pulsano’ le pietre 3D di Esther Hunziker (‘Streamers’, lasciamo l’esperienza alla visione e all’ascolto). Altri sassi, quelli del duo Gysin-Vanetti, nella terza sala, sono il trionfo della pareidolia, un inganno della percezione che gioca sulla superficie delle forme, investite dalla mappatura video. Insieme a ‘Neoland’ (interazione tra macchina fotografica e software avente come base una cascata ghiacciata del Baden-Württemberg) e a ‘Ortus’ (trasformazione nata questa volta dalle tracce sonore, abbinate e sincronizzate con l’animazione), la terza sala si conclude con l’esperienza immersiva ‘Exhibition’, realizzata da Koy insieme a Sabine Hertig: si entra così dentro spazi museali con tanto di opere alle pareti, ambiente espositivo ricreato in 3D che diventa, infine, opera a sé.

In superficie

A margine della presentazione, incontriamo Dirk Koy nella semioscurità della quinta sala, mentre sullo schermo scorrono le immagini di ‘Intersect’, “indagine visiva sui confini permeabili tra reale e virtuale”, per dirlo con l’ufficialità scritta. Di questa ricerca durata quattro anni colpisce la ‘manipolazione’ degli insetti, specie cui Koy si dice assai vicino: «Lavorano la superficie, cambiandola. È un po’ quello che faccio io, che lavoro alla superficie del digitale». Come nel grande esodo del Cirque du Soleil (‘Corteo’), un moto perpetuo di specie va a comporre prima specie inedite e poi forme geometriche da caleidoscopio.


Dirk Koy al lavoro

L’atto finale dei cinque che compongono ‘Intersect’ mostra paesaggi naturali dai tratti impressionistici: «È il visual feedback, un effetto che in passato si otteneva filmando l’output della Tv accesa senza che vi fosse trasmesso nulla, praticamente loop», spiega l’artista. «Ho 48 anni, sono nato con le videocamere e il Vhs, mi capita di portare l’analogico in questo mondo di computer». E allora chiediamo quanto aiuti, il background analogico, in questo mondo di computer: «Aiuta nel processo di apprendimento dell’immagine cinematografica in generale. Certo, le applicazioni oggi sono totalmente ridimensionate, ma può succedere di imbarcarsi in qualcosa di totalmente digitale e pensare ai giorni in cui salivi in soffitta a cercare i tuoi vecchi computer, prendevi le vecchie cose e le mettevi in quelle nuove».

Quello di Castel Grande non è un unicum, ma quasi. Alla Haus der Elektronischen Künste di Basilea (Hek), l’arte digitale trova regolarmente spazio, ma è un’eccezione. Quanto è difficile farsi accettare dai musei ‘analogici’? «Le cose stanno cambiando – chiude Koy –, molte istituzioni museali si sforzano di mostrare più arte digitale. Però credo che il tempo per riempire gli spazi del Kunstmuseum di Zurigo, per esempio, sia ancora lontano. Di certo, quest’arte potrebbe essere più rappresentata».