I pregiudizi di genere che permeano la nostra società non sono un problema solo per le donne. E dovrebbero capirlo anche gli uomini
Credo che dovremmo evitare di parlare di “privilegio maschile” (e, più in generale, eterosessuale, bianco, borghese, cisgender…), almeno nei termini generali con cui a volte si usa questa espressione.
I privilegi sono infatti concessioni ingiuste, ma spesso l’ingiustizia non sta nel fatto che i maschi (o le persone eterosessuali, non razzializzate eccetera) godano di un certo diritto, ma nel fatto che altre persone ne siano escluse. Quando le donne non potevano studiare il problema non era certo il privilegio maschile di potersi iscrivere all’università, ma il fatto che metà della popolazione ne fosse tagliata fuori. O, per non ricorrere a esempi storici – per quanto la questione del diritto allo studio femminile sia attuale in molti Paesi –, pensiamo al fatto che le opinioni delle donne valgono generalmente meno di quelle degli uomini: la soluzione alla cosiddetta “ingiustizia epistemica” non consiste nel non dar credito neanche agli uomini, ma nel valutare le competenze indipendentemente dal genere.
Capisco che questa obiezione possa sembrare una semplice questione terminologica. C’è tuttavia un altro motivo, più profondo, per cui non mi piace parlare genericamente di privilegio: farlo sembra implicare che l’attuale sistema sociale, con tutti i suoi pregiudizi e le sue discriminazioni, non possa in alcuni casi colpire anche i maschi. Gli stereotipi di genere vogliono gli uomini forti, competitivi e privi di debolezze: mostrare la propria fragilità o comportarsi “non da vero uomo” vuol dire affrontare una pressione sociale che non tutti sono in grado di sopportare. Questo meccanismo costringe molti uomini a rinunciare a una dimensione affettiva che costituisce invece un aspetto essenziale dello sviluppo umano. I tassi di suicidio tra gli uomini, più alti di quelli tra le donne, derivano anche da questo, oltre che dal fatto che chiedere aiuto psicologico è spesso inconcepibile perché “un vero uomo se la cava da solo”.
Il confronto con le discriminazioni subite dalle donne, o da altri gruppi più o meno emarginati, è ovviamente impari: con questo discorso non si vogliono negare i forti squilibri di potere presenti nella nostra società. Ma il punto non è fare classifiche – e men che meno spiegare alle persone discriminate come dovrebbero combattere le discriminazioni –, ma evidenziare come il cosiddetto patriarcato sia un sistema di oppressione che, in modi diversi, danneggia tutte e tutti. E che tutte e tutti dovremmo cercare, insieme, di superare.
Il senso non è impadronirsi in ottica maschile del femminismo o di altri movimenti di emancipazione, ma capire – e direi che sono soprattutto i maschi ad avere difficoltà a capirlo – che il femminismo non è una guerra tra gruppi per contendersi dei diritti concepiti come una risorsa limitata e scarsa. Dovremmo capire che il femminismo è, o può essere, una liberazione della quale tutte le persone possono beneficiare.
I rigidi ruoli di genere con cui uomini e donne sono confrontati non sono fenomeni naturali ma costruzioni sociali che creano gabbie identitarie che limitano le possibilità di autorealizzazione. Superare il patriarcato significa quindi aprire spazi di opportunità in cui ognuna e ognuno siano davvero liberi di trovare, o costruire, il proprio modo di vivere.