Mai così tanti reporter uccisi: oltre 200 vittime. Le loro voci: ‘Siamo bersagli. La scritta ‘press’ non ci protegge più, anzi, è un incentivo a sparare’
Mai nella Storia si era registrato un numero tanto elevato di giornalisti uccisi dalle forze armate. In un anno e mezzo i morti ammazzati superano quota 200. I giornalisti palestinesi sono diventati bersagli di missili, carri armati, sniper e droni israeliani. Le testimonianze di due giornalisti palestinesi e di un noto giornalista israeliano raccolte al recente Festival Internazionale del Giornalismo svoltosi a Perugia.
Il sette aprile scorso si trovava in una tenda colpita da missili israeliani adibita per i giornalisti accanto all’ospedale Nasser a Khan Younis, nel sud della striscia di Gaza. Ahmed Mansour, giornalista di “Palestine Today”, è morto bruciato vivo, avvolto dalle fiamme; una scena atroce immortalata in un video postato sul web. Padre di due bimbi, ucciso in un rogo, mentre svolgeva la propria professione. Come altri 200 giornalisti uccisi dalle bombe, dai tank, o dagli sniper israeliani da quell’infausto 7 ottobre 2023, giorno del massacro da parte di Hamas di oltre un migliaio di civili e soldati israeliani e pure inizio di una mattanza senza fine messa in atto dal governo di Israele. Ahmed Mansour è solo l’ultimo dell’infinita serie di reporter, cameraman, fonici, fotografi uccisi dall’esercito dello Stato ebraico in meno di un anno e mezzo. Si tratta del bilancio più pesante nella storia del giornalismo: mai prima d’ora si era contato un numero tanto elevato di vittime. Come dire che la scritta “press” sul giubbotto antiproiettile, invece di garantire un salvacondotto a chi lo indossa, rende i giornalisti bersaglio delle forze armate.
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‘Al ritmo con cui i giornalisti vengono uccisi a Gaza, preso non ci sarà più nessuno a informarvi’
Shuruq As’ad è stata la prima giornalista donna di Palestine Tv all’indomani degli accordi di Oslo (1993), ha lavorato per diverse testate arabe, tra cui Al Jazeera, è corrispondente di Radio Montecarlo dal Medio Oriente ed è stata insignita di diversi premi giornalistici. Conosceva Ahmed Mansour. “Era con un gruppo di giornalisti, è bruciato vivo con altri due dopo che la tenda in cui si trovavano è stata colpita da un missile. Ho visto tutto su un video, è qualcosa di insostenibile, terrificante, che non potrò mai dimenticare”. Le lacrime le solcano il viso, cerca di riprendersi: “Ma come fai a uccidere delle persone in questo modo sistematico? Siamo diventati un bersaglio, gli israeliani vogliono farci tacere, il genocidio non deve avere testimoni, per questo motivo hanno chiuso ermeticamente i confini di Gaza”. Shuruq opera da Ramallah, Cisgiordania, non ha il diritto di recarsi a Gaza, da un anno e mezzo terra off limits per tutti i reporter. “I miei colleghi che lavorano da Gaza ricevono regolarmente sul loro cellulare messaggi dell’esercito israeliano che ingiungono loro di non riferire di quanto succede, sono localizzati e diventano sistematicamente un obiettivo dei missili intelligenti: Israele sa esattamente dove si trovano tutte le persone, conosce le loro identità e attività”. Gaza: un inferno per tutti, giornalisti in primis: “Medici, bimbi, donne, giornalisti, tutti vengono massacrati. Si tratta di un vero e proprio genocidio perpetrato anche da riservisti israeliani che nella vita civile sono dei giornalisti. È orrendo. Si rende conto di quanto ci sta succedendo?”.
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Le foto di tre reporter uccisi
Ashraf Mashharawi è di Gaza ma quel 7 ottobre di due anni fa si trovava in Angola per realizzare un reportage. Da allora non ha più potuto tornare a casa, dalla sua famiglia e tra i suoi colleghi. “Quattro giornalisti del mio team sono stati uccisi, la sede della mia organizzazione (Mediatown) è stata polverizzata dalle bombe”. Ora opera in remoto, è in contatto con altri giornalisti, analizza le immagini sui social, quelle satellitari. “Utilizzano contro di noi anche la diffamazione sistematica, ci tacciano di terroristi, i miei colleghi rimasti a Gaza devono continuamente fuggire, ricevono sistematicamente preavvisi di evacuazione. È uno stress senza fine”. Ci assicura che i sopravvissuti della sua redazione resistono, che conducono inchieste e che hanno potuto a più riprese provare, grazie a immagini satellitari, metadati e testimonianze, numerosi assassinii mirati. “Non solo prendono di mira te in quanto giornalista, ma pure la tua famiglia. Fuggire, proteggersi, e al tempo stesso lavorare: uno stress quotidiano che dura da un anno e mezzo”.
Gli chiediamo se si aspettava una carneficina del genere da parte dell’esercito israeliano. Abbassa il capo, riflette, poi il suo sguardo incrocia brevemente il nostro, ci chiede se può mostrarci una foto sul suo smartphone. “Sì certo, fai pure”. Ce la mostra: ritrae una bimba bionda riccioluta, solare. “Era la mia nipotina” ci racconta, la voce strozzata da un nodo in gola. “Aveva 5 anni, è stata uccisa un paio di mesi fa a Gaza. La famiglia aveva ricevuto un ordine di evacuazione, sono usciti tutti di casa, hanno attraversato la strada, a 900 metri c’era un carro armato, non potevano costituire nessun pericolo. Ciononostante uno sniper l’ha comunque presa di mira, il proiettile l’ha centrata al collo”. “Non pensavo potessero fare queste cose, dov’è l’umanità, perché ci fanno questo? Non si tratta di essere israeliani o palestinesi, ma solo di venire considerati esseri umani. E noi per loro non lo siamo”.
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Il volto di un reporter ucciso tra i cartelli di protesta a Berlino
Il suo giudizio non fa sconti all’Occidente e pure a noi giornalisti che viviamo in quel mondo. “I giornalisti occidentali non fanno sempre il lavoro che dovrebbero fare, non denunciano abbastanza questa tragedia, ci sentiamo spesso dimenticati”. Critica e affondo: “Hanno paura di toccare Israele, temono per le loro carriere perché sanno che le lobby sono molto attive. Sappiamo bene chi controlla il mondo e lo sanno anche i giornalisti occidentali”.
Insomma, autocensura secondo Ashraf Mashharawi: “Non vi rendete conto della tragedia quotidiana che stiamo vivendo, ho calcolato che ognuno di noi conosce in media 180 persone uccise dai bombardamenti”. Lui ha perso la casa, la sede della sua testata, ha visto morire molti membri della sua famiglia, colleghi, amici, conoscenti. “Sì – replichiamo – ma il mondo arabo non sembra più reattivo di quello occidentale”.
“Sono d’accordo – replica – il mondo arabo ci ha lasciati da soli, ma noi speravamo che l’Occidente, terra dei diritti umani, fosse più solidale con le vittime di un genocidio”. Genocidio, il termine è al centro di numerose diatribe. Ma sembra in effetti definire, stando a diverse Ong tra cui Amnesty International, dichiaratamente super partes, la mattanza e la pulizia etnica in atto.
È quanto sostiene Meron Rapoport, giornalista israeliano del sito online in ebraico Local Call, declinato in inglese nella pubblicazione +972: “La reazione in Israele di fronte alle accuse di genocidio è stata difensiva, in altre parole chi ci accusa è antisemita. Il mondo è contro di noi ecc... Nulla di nuovo. Ma al di là della decisione tecnica che stabilirà la Corte Internazionale di Giustizia, mi sembra evidente che sia in atto un genocidio, con la dichiarata volontà di cancellare un popolo dalla propria terra. Basti pensare a quanto affermano i politici e a quanto fanno le forze armate israeliane”.
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Il volto di un giornalista palestinese ucciso
Ma che fine ha fatto l’ebraismo illuminato, l’umanesimo che affonda le radici nella grande tradizione ebraica, chiediamo. “Purtroppo – risponde sconsolato Rapoport – Israele è completamente cambiato dalla morte di Yitzhak Rabin, 30 anni fa. Da allora l’umanesimo è scomparso progressivamente, si sono rafforzati apartheid e pulizia etnica. La carneficina del 7 ottobre non ha fatto che accelerare un processo già in atto”. Il giornalista israeliano ci spiega che pur essendo considerato una “bestia nera” nel suo Paese, a Tel Aviv lavora abbastanza liberamente e che la sua piattaforma di informazione opera anche sulla base di informazioni raccolte da giornalisti palestinesi sia a Gaza sia in Cisgiordania. Oltre a quelle fornite dai colleghi palestinesi presenti a Gaza, Local Call e +972 raccolgono informazioni da fonti protette all’interno delle forze armate (Idf), da riservisti, ex soldati, funzionari dello Stato. Così riescono a fornire informazioni di estremo interesse e realizzare inchieste sugli abusi e le efferatezze dell’esercito: massacri di innocenti, torture, assassinii mirati di giornalisti. Non solo a Gaza ma pure in Cisgiordania, la situazione sul fronte della libertà di informazione sta precipitando. “È sempre più difficile muoversi – testimonia Shuruq As’ad – siamo minacciati, e non ci si rende conto all’esterno di quanto sia difficile lavorare: siamo umiliati nelle centinaia di checkpoint, ci sequestrano il materiale tecnico, ci arrestano. Vivo a Ramallah e per andare a realizzare un reportage a Jenin l’ultima volta mi hanno fermato per 7 ore a un posto di blocco”.
Le opinioni dei nostri interlocutori convergono: fino a qualche anno fa la tessera di giornalista, l’accredito, la scritta “press” sulla macchina o sul giubbotto antiproiettile ti proteggevano. Oggi fanno di te un “dead man walking”, un obiettivo da abbattere.