il reportage

Tutti in fila per Francesco fino all’ultimo scatto

Anche le suore non resistono alla foto alla salma del Papa. E poi c’è chi inciampa, chi perde bottoni, chi scrive alla nonna e chi vuole scommettere

Lunghe code per l’ultimo saluto
(Keystone)

“Addanié, ce sta’ a Sisal, chiedi un po’ a quanto ’o mettono er filippino. Tachel, Tackle, come se chiama? Se lo giocamo”. Addanié è Daniele, taglio geometrico e piumino smanicato nonostante il caldo primaverile. “Er Filippino” è Sua Eminenza Luis Antonio Gokim Tagle, arcivescovo metropolita di Manila nonché Pro-prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione.

È lui, insieme al cardinale italiano – e Segretario di Stato – Pietro Parolin, il favorito dei bookmaker inglesi per succedere a Papa Francesco. Solo che in Italia (e in Vaticano) non si può scommettere sul Conclave, come scopriranno di lì a poco Daniele e l’amico, delusi, quasi risentiti di non poter fare la loro giocata. La Sisal è la società di scommesse che lanciò il Totocalcio e il Totip. L’agenzia in questione sta a 740 metri da piazza San Pietro. I due scommettitori si avviano verso piazza Risorgimento. Da lì, carabinieri, protezione civile e volontari indirizzano la fiumana di fedeli e semplici curiosi verso una delle file che portano nella Basilica dove è esposta la salma del Papa.


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Code anche di 3-4 ore per entrare

Selfiestreet

Sull’angolo del palazzo da cui si viene incolonnati c’è un maxischermo che pubblicizza una nuova app, Selfiestreet, l’ultima frontiera per i compulsivi dell’autoscatto che possono così ammirarsi sugli schermi giganti sparsi per la città. Uno scherzo del destino e della modernità a pochi metri dalle mura vaticane, una premonizione di quel che accadrà di lì a poco davanti ai miei occhi – con una protagonista inattesa –, è accaduto nei primi due giorni ed è continuato ad accadere fino alle 20 di ieri sera, quando piazza San Pietro è stata infine chiusa, e con lei anche la bara di Francesco, in attesa del funerale di questa mattina, fissato alle 10, prima di un lungo corteo funebre di sei chilometri a passo d’uomo che porterà la salma del Papa a Santa Maria Maggiore, dove verrà tumulato.

La fila di chi porta l’ultimo saluto al pontefice è ordinata, fatta di sorrisi, piccoli gesti di gentilezza reciproca, controlli continui delle forze dell’ordine e racconti al limite del mitologico di code altrui: “Mio cognato ha aspettato 4 ore prima di entrare”, racconta una signora, mentre un’altra ribatte: “Sarà venuto sicuramente ieri pomeriggio, perché mio fratello è venuto stamattina alle 7 ed è riuscito a fare due giri”. L’ultimo omaggio al Papa vissuto come una serata alle giostre, uno di quei momenti solenni appallottolati dentro all’egocentrico e umanissimo “io c’ero”.


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Folla e maxischermo

La coda scorre più rapida del previsto e in meno di quaranta minuti siamo sulla soglia di San Pietro assistendo a controsensi: una signora dall’accento pugliese, delusa per la poca coda, si fa sfuggire un “se la meritava più lunga, il Papa”, come se lo scorrere più o meno fluido della fila avesse un qualche collegamento diretto con le qualità umane del pontefice adagiato sulla bara, ormai poche decine di metri più in là, lungo la navata centrale. La signora pugliese, sempre lei, ci tiene a ripetere che abita a 34 chilometri da San Giovanni Rotondo, dove visse, operò e giace Padre Pio. Non 30, circa 35, 40: 34 giusti giusti. Intorno a lei, marito e moglie usano a mo’ di ventaglio due fogli pinzati intitolati “Preghiera per il pellegrinaggio alla Porta Santa” mentre un ragazzo francese si raccomanda al padre di togliere la suoneria e di non fare come quella volta là, in Messico. Ridono. Incuriosito, chiedo. “Une longue histoire”, rispondono. Poi ridono ancora. Chissà.

Hard rock, Panarea e buddisti

Volgendo lo sguardo indietro si vedono i segni di un mondo sempre più piccolo, mescolato e globalizzato: un indonesiano con il cappellino con su scritto Panarea, una donna in abiti africani con la cover del telefono del Milan, una ragazza che parla una lingua dell’est con la maglia dell’Hard Rock Café di Miami. E ovviamente tante suore vestite semplicemente da suore. Spunta anche una giacca a vento del San Lorenzo, la squadra di calcio tifata da Bergoglio: “No, non sono argentino – spiega Fabio –. Sono genovese, tifoso della Sampdoria e del San Lorenzo, per motivi legati a un viaggio in Argentina. Non sono nemmeno cristiano, sono buddista, ma ero a Roma per lavoro, avevo un po’ di tempo e mi sembrava giusto venire qui, portare i saluti a un uomo di pace indossando qualcosa che lo rappresentasse al di là della religione”.


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Dentro la Basilica

Man mano che procediamo verso la salma, la gente si distrae, guarda in alto, verso statue e affreschi, chiacchiera, scatta e controlla foto, inciampando a ritmo continuo sui piedi rientranti delle barriere, che sono in metallo e – a vedere certe facce – dolorosi da scontrare. Inservienti e guardie si raccomandano con largo anticipo di non fare foto al Papa, se possibile mettere il cellulare in tasca, ma pochi li stanno a sentire. In un nutrito gruppo di suore filippine ce n’è una più agguerrita delle altre – forse la persona più bassa in tutta la chiesa, bambini esclusi – stringe il telefono al petto e lancia occhiate qua e là tipiche di chi sa che sta facendo una cosa che non dovrebbe fare. Nel frattempo una ragazzina legge la scritta “Ad maiorem dei” e chiede al padre: “Che lingua è? E poi, scusa, le Guardie svizzere sono quelle vestite da Arlecchino? E perché Svizzere?” Risposte: “Latino, sì, non lo so”.

A pochi metri dalla salma il percorso si divide in due, al centro uno spazio per le autorità e i dipendenti vaticani; sulle ali, la folla che ha giusto il tempo di rallentar e dare un’occhiata. Come altri prima di lei, la piccola suora filippina si ferma più del dovuto, scatta una foto, viene redarguita da un gendarme: quando lui si distrae per fermare un tentativo di selfie maldestro col morto, lei si piazza davanti al Papa e scatta a ripetizione. “Eh no, non avete rispetto manco per una salma. Proprio lei, poi, sorella”, sbotta il gendarme sfoderando un sorriso amaro. Lei chiede scusa, ma non molla. Un addetto vaticano alza la voce: “Se volete stare qua dovete pregare, non fare le foto. Soprattutto le suore. Le foto le fate al mare”.

Volo last minute dal Messico

Oltre la bara sta per iniziare una messa. Una donna in lacrime srotola una bandiera col volto di Francesco e la scritta “Misionero de Misericordia y Paz”: l’appoggia sulla transenna che divide la folla dallo spazio in cui pregano i dipendenti vaticani, spiazzando tutti. Dice che Francesco ha salvato personalmente la sua parrocchia dalla chiusura, in Messico, che a lui deve tutto, che è la persona più importante. Si chiama Carmen e per esserci ha preso un volo all’ultimo momento pagandolo quasi duemila dollari: “Ma se non fossi venuta, non me lo sarei mai perdonato”.


R. Scarcella
Mondovisione

Incrocio il gendarme che ha appena redarguito la suora-fotografa: “A volte siamo bruschi, ma con alcuni non puoi farne a meno. E poi stiamo facendo turni di 12 ore, giovedì abbiamo chiuso alle 5.30 di mattina, ieri non abbiamo chiuso affatto. Vedere come la gente manca di rispetto a un morto, a un Papa che – in teoria – verrebbero qui a omaggiare è inaccettabile. Le suore, poi, sono le peggiori”. E ritorna al suo posto accelerando il passo.

Andando verso l’uscita, da un gruppo di suore dall’aria cupa e tutte una appiccicata all’altra cade un bottoncino di legno – non si capisce bene di chi – che rotola sul lato corto percorrendo mezza navata laterale, andando dolcemente ad adagiarsi contro una colonna. Fuori, altre suore, vestite di bianco e azzurro, con il velo nero. Sono indiane e filippine. Provano a farsi un selfie con la piazza sullo sfondo. Dal lato opposto svetta un maxischermo acceso con la solita, tipica immagine colorata delle prove tecniche di trasmissione a fare da contrasto alla solennità della facciata di San Pietro, in parte coperta dai pixel. Ricordandoci che la tv uccise le star della radio come i piccoli schermi che ci portiamo appresso hanno imbarbarito ogni esperienza, perfino l’ultimo saluto a Francesco, il cui volto, trasfigurato dal processo d’imbalsamazione che spetta a ogni Papa, avrebbe meritato ben altro rispetto. E un po’ di pudore.

Colombe? No, gabbiani

Mentre scende la sera e i poveri e gli emarginati a cui Francesco in questi anni ha aperto la piazza tornano a riposare sotto il colonnato e due improbabili tizi di Zagabria in divisa arancione provano a spiegare ai passanti come si può ricostruire un mondo migliore, paralizzando le Nazioni Unite e riformando la vecchia Jugoslavia su un pezzo di Antartide, uno stormo si alza in volo componendo un’immagine da film alla Sorrentino. Una donna ecuadoriana, affascinata, esclama: “Sono colombe bianche, è un segno del destino”. Un giornalista italiano, meno romantico e più disilluso, ribatte: “Mi spiace deluderla, sono gabbiani”. Ribadendo che spesso le cose sono come sono e non come vorremmo.


R. Scarcella
Suore in piazza

Intanto, in fondo al negozio del Vaticano a lato del sagrato, e che vende di tutto – dai gadget del Giubileo ai francobolli, da improbabili busti di Giulio Cesare a scacchiere da 500 euro, da ombrelli delle Guardie Svizzere alle palle di Natale con sopra la Cappella Sistina – c’è un grosso tavolo che è una piccola Babele dove pezzi di mondo momentaneamente riuniti nello Stato più piccolo del mondo scrivono lontano, a casa o a chi gli è caro. Mentre una donna cinese armeggia con un plico di cartoline, lettere e buste che peserà mezzo chilo, disegnando un giocoso animaletto a ogni destinatario, un bimbo sta chino su una cartolina e scrive un lungo messaggio ai nonni in francese che inizia così: “Cara nonna, caro nonno. Siamo a Roma. Volevo dirvi che mi diverto, che c’è il sole e che il Papa è morto”.