L’artista Yuri Catania racconta come è nato Universo, opera di street art che ha coinvolto tutta la comunità dell’Università della Svizzera italiana
C’erano la rettrice Luisa Lambertini e il sindaco di Lugano Michele Foletti, ma c’erano anche allieve e allievi delle scuole elementari e medie, semplici curiosi e quella che possiamo davvero definire “comunità accademica”, da professori e membri dei vertici istituzionali a studenti e ricercatori. Erano lì, sabato scorso durante la giornata di porte aperte dell’Università della Svizzera italiana, a testa all’insù (o all’ingiù sfruttando uno specchio messo per lavoro e per i selfie) sotto il cubo che al Campus ovest ospita mensa e Auditorio, per l’inaugurazione di Universo, opera di street art partecipata realizzata da Yuri Catania.
Yuri Catania, quando è iniziato questo progetto e come si è sviluppato?
Ho iniziato il 15 aprile, sospendendo solo per Pasqua e andando avanti a oltranza. Adesso l’opera è chiusa ma momentaneamente: la considero un cantiere aperto con un senso compiuto. L’intenzione è di proseguire l’anno prossimo, perché man mano che allargo per fare un nuovo giro ho bisogno di tanti volti. La cosa affascinante di questa opera è il suo essere completamente in dialogo con le persone che si sono fatte ritrarre. In dialogo e in relazione di necessità: se non fosse venuto nessuno, adesso non ci sarebbe l’opera.
Il rischio di un’opera partecipativa…
Sì, può sembrare rischiosa come scelta, perché nessuno è stato obbligato. Di fatto è come se avessi detto “io voglio fare un’opera epica, chi mi aiuta, chi ha fiducia in me?”. Magari sarebbero venute solo venti persone… sono andato in ogni facoltà a spiegare il progetto, ed è stato affascinante perché entri in dialogo: non è stato solo un lavoro artistico, ma c’è stata anche una dimensione umana molto importante.
Insieme ai volti abbiamo elementi naturali: farfalle di carta che sembrano staccarsi e poi i fiori.
Tranne le dalie bianche che ho fotografato nel mio giardino, i fiori sono tutti realizzati con l’intelligenza artificiale. È una provocazione: volevo capire se la gente oggi sa riconoscere un fiore vero da uno artificiale. Non solo: per avere quei fiori mi sono messo in chiave romantica con la macchina: “Tu che non hai mai camminato in un prato, non hai mai visto un fiore, non puoi vedere un fiore, come puoi attraverso un comando, con tutta l’informazione che ti viene caricata, capirne il senso?”. Il ruolo dell’artista è questo: provocare, capire, porsi delle domande. Ed è interessante, e preoccupante, che nessuno si accorga che i fiori sono artificiali. Neanche dopo che l’ho spiegato, perché non nascondo niente.
Ci sono storie particolari dietro alcuni dei ritratti?
Quest’opera è piena di storie e di significati. C’è ad esempio una persona che ho fotografato tre volte mettendo insieme una testa con tre volti. Perché? È un’idea venuta così, mi ha detto che in università ricopre tre ruoli completamente diversi, quindi che è tre persone in una. L’opera è piena di storie come questa: un ragazzo si è fatto fotografare col casco, e io l’ho lasciato fare, perché era la sua personalità.
Perché proprio sul soffitto?
L’università mi ha offerto alcuni spazi, non tantissimi ma avevo comunque una certa scelta. L’obiettivo era quello di raffigurare la comunità, di raccontare una università fatta di persone. Come ho fatto ad Ascona con gli artisti, o a Rovio con il Wall of Fame degli abitanti ma qui è stato ancora più grande: ad Ascona avevo 400 ritratti, qui siamo arrivati a quasi un migliaio e ne ho ancora altri perché nel frattempo la gente voleva continuare a farsi fotografare.
Un’opera verticale sarebbe stata diversa?
Immaginavo quest’opera in verticale, su un muro, ma sarebbe diventato qualcosa di sfacciato, perché alla fine sono le vite di persone reali. E poi io le volevo in cerchio, perché è una figura geometrica particolare, evocativa, oltre che il simbolo dell’Usi. Ma un cerchio su una parete sarebbe stato come creare un bersaglio: non funzionava. E quindi è arrivata, con un po’ di coraggio, l’idea del soffitto. E il fatto che tu non abbia il senso dell’opera intera, che devi esplorarla, porta a rallentare le persone, a dedicarle del tempo per percorrerla.
Immagino non sia stato semplice lavorare in questa situazione.
Chiaro, se il soffitto fosse stato un po’ più alto sarebbe stato più comodo per tutti, per me e per chi la osserva. Però, nella scomodità, ho avuto modo di lavorare in un posto dove penso che a nessun artista sarebbe venuto in mente di fare qualcosa perché poco visibile… devo ringraziare l’Usi! È stato sfidante, e per me fare street art deve essere sfidante, non è una scelta di comodo. E questo è il posto dove tutti gli studenti si fermano, è la loro piazza. Mi avevano anche proposto l’aula magna, ma gli studenti ci vanno solo per gli esami, non è la stessa cosa.
Quale reazione hai osservato nelle persone che scoprono l’opera?
La prima cosa che fanno è iniziare a girare. È una sensazione forte: ho creato anche un linguaggio del corpo dovuto all’opera d’arte. È affascinante vedere come quest’opera porti a un modo particolare di goderla, è un dialogo, un gioco.
Non è l’unico intervento in università.
No: quest’opera è il frutto della campagna Play Your Future che l’Usi mi ha commissionato, la campagna di comunicazione che l’ateneo ha voluto dare a un artista e non a un’agenzia di comunicazione. E ogni facoltà in questo momento ha una sua installazione con i suoi fiori. C’è tutto un percorso.