Alla vigilia di un nuovo test contro i tedeschi, Janis Moser parla del Mondiale e della sua avventura con Tampa Bay. ‘Tutta la città è dietro di noi’
Herning – Kevin Fiala e Nico Hischier saranno anche sulla bocca di tutti al Mondiale scandinavo, tuttavia il geniale sangallese dei Los Angeles Kings e il capitano vallesano dei New Jersey Devils non sono certo le uniche superstar della Nazionale di Patrick Fischer. Arrivato a Herning un po’ in sordina, oltre che all’ultimo dopo aver perso il volo dalla Florida, a causa di uno spiacevole contrattempo dovuto al ritardo accumulato dal suo taxi, inghiottito nel traffico, il ventiquattrenne di Bienne è uno dei perni della difesa rossocrociata e dopo aver lasciato la Tissot Arena nel 2021 – con un bottino di 30 punti in 48 partite, di cui 9 reti – e aver fatto la gavetta in Ahl, a Tucson, è riuscito a sfondare anche in National Hockey League. Dapprima ritagliandosi un posto da protagonista con i Coyotes dell’Arizona nel frattempo scomparsi, e poi nei Lightning di Tampa Bay, dov’era arrivato nel giugno di un anno fa, infilato in mezzo a un ‘trade’ con Utah assieme a Conor Geekie più due scelte nel Draft Nhl in cambio dell’ambito Mikhail Sergachev. Soltanto un paio di settimane più tardi, Janis Moser avrebbe messo la firma su un contratto da poco meno di 7 milioni di dollari con la franchigia della Florida. «Devo dire che non è poi tanto male, essere tra i primi quattro difensori dei Lightning» esordisce, con il sorriso, Janis Moser. «Anche pensando che quando sono arrivato in Nhl è stato un vero e proprio choc per me: perché, in tutti i sensi, al di là dell’Oceano c’è tutta un’altra cultura» aggiunge il ventiquattrenne difensore, che può essere considerato il vero ministro della difesa rossocrociata a questo Mondiale in cui non c’è un Roman Josi, messo fuorigioco da una probabile commozione cerebrale. Josi di cui, tra l’altro, un giovanissimo Janis Moser aveva il poster appeso nella propria cameretta... «Certamente Roman ancor oggi è per me una fonte di grande ispirazione, perché è davvero un giocatore straordinario e sa fare cose eccezionali – spiega Moser –. È vero che ciò che gli vedo fare provo a farlo mio, ma non lo faccio certo con l’obiettivo di copiarlo, bensì per sfruttarne l’impulso: infatti lui è lui e io sono io, siamo due persone diverse, anche soltanto a livello fisico. Quindi io non posso certo fare ciò che fa lui, tuttavia posso prendervi ispirazione, modellando il mio gioco sui miei punti di forza, però, possibilmente cercando anche di divertirmi mentre lo faccio».
Del resto, hai sempre avuto un fisico piuttosto esile a confronto di certi colossi delle difese nordamericane: si può dire che, per compensare, hai cercato di sviluppare il tuo Qi hockeistico? «È senz’altro così – aggiunge –. Soprattutto quando ero ancora un ragazzino, a quattordici o quindici anni ero davvero magro, e non ho mai avuto l’opportunità di svilupparmi a livello muscolare, così cercavo di fare affidamento sul mio cervello, studiando approcci differenti che nel frattempo mi hanno senz’altro aiutato. E lo stesso vale per l’etica del lavoro, che mi ha permesso di avvicinarmi ai giocatori migliori».
Un giorno abbiamo letto che al termine di una partita giocata ad Ambrì con il tuo Bienne, quando siete rientrati dalla trasferta tu sei andato in pista per lavorare sulla qualità del tuo tiro. È vero? «Sì... Ricordo che c’era stato un momento in cui ho mancato il tiro: avrebbe dovuto essere un gol facile... Ero davvero arrabbiato, anzi diciamo che ero furioso, e naturalmente anche parecchio giovane: non sapevo ancora come gestire bene le emozioni. Ma dovevo pur fare qualcosa, perché ero talmente arrabbiato che non sarei riuscito a dormire...».
Adesso, però, la situazione è ben diversa. Quando Patrick Fischer, tra la sorpresa generale, decise di portarti a Bratislava nel 2019, in quello che fu il tuo esordio a un Mondiale, eri ancora un ragazzino: quanto senti di essere cresciuto in questi anni? «Tantissimo. E da allora il tempo è letteralmente volato, tanto che questo è già il mio terzo Mondiale in sei anni. Quando sei un po’ più vecchio, pur restando comunque un giovane, avverti che stai migliorando, che stai crescendo sia sul ghiaccio, sia fuori. È indubbio che c’è stata un’evoluzione, ed è anche merito dell’esperienza che ho potuto maturare».
A proposito di esperienza: durante la stagione sei stato costretto a fare i conti con un serio infortunio e hai dovuto lottare per superarlo... «Anche questo fa parte degli insegnamenti che uno deve saper mettere a frutto, e non è facile confrontarsi con un grave infortunio, perché ti rendi conto che la sera prima stavi lottando in pista e la mattina dopo non riesci nemmeno a muoverti – dice, alludendo allo strappo all’inguine occorsogli sul ghiaccio di Calgary nel mese di dicembre –. Era la prima volta in carriera che mi capitava qualcosa di grosso, e a quel punto capisci che non c’è nulla che tu possa fare: il rischio è di lasciarsi trascinare in una spirale negativa, e per combattere puoi soltanto trovare qualcosa che riesca comunque a entusiasmarti, in attesa di ritornare a giocare, allenandoti per quanto possibile e cercando di pensare ai benefici che stai ottenendo mentre ti prepari al rientro».
Quanto è stato difficile per te il cambiamento dall’Arizona alla Florida? «Diciamo che sono due situazioni diverse, perché è completamente differente il modo in cui le due franchigie vengono gestite. A Tampa Bay stanno facendo davvero un ottimo lavoro nel valorizzare ogni singolo impiegato nell’organizzazione, creando un certo legame tra le persone in una città che è interamente dietro alla squadra, e la segue con vero interesse. In Arizona, invece, è come se a nessuno interessasse davvero cosa stessimo facendo. In Florida è un’altra cosa: il club vuole dare qualcosa in cambio alla comunità e c’è davvero un grande interesse per l’hockey: c’è voglia di assistere alle partite, la gente ne va matta, è stato davvero bello vederlo».
I Mondiali, invece? Un anno fa non avevi potuto esserci, mentre adesso torni a far parte di un gruppo su cui c’è davvero una grande attesa, dopo che l’anno scorso era arrivato a un solo passo dal conquistare il titolo. «Purtroppo quell’avventura me la sono persa, ma è stato davvero un gran Mondiale quello. Anzi, direi che a Praga la Svizzera ha fatto davvero qualcosa di incredibile. Ma il bello di questo gruppo – conclude Moser – è che ogni volta che torni hai l’impressione di non essere mai partito, non importa che tu faccia parte dello staff oppure che tu sia un giocatore. E questa è davvero una gran bella cosa: siamo qui tutti per dare il massimo e metterci nelle migliori condizioni possibili per riuscire a compiere quel passo che ancora ci manca».