Alle 22.48 di venerdì sera la città è esplosa per la conquista del quarto scudetto dopo la depressione seguita al trionfo del 2023
Dove eravamo rimasti? Da quale precipizio eravamo caduti senza nemmeno fare in tempo ad accorgerci del baratro, a provare il senso del vuoto? Il Napoli dopo l’estate del 2023 era sprofondato in una sorta di ribaltamento della meraviglia, il contrario della gioia, l’opposto della bellezza. Si trattava di un tipo diverso di stupore quello che nasce dall’incubo, dall’orrore, dal dolore. La società, i calciatori, gli appassionati, i tifosi erano precipitati in una sorta di malinconia collettiva, in un oceano di depressione sconfinata che via via aveva sbiadito l’azzurro dalle maglie, dalle bandiere, dai muri di Napoli e ne aveva disperso le ultime gocce nell’orizzonte di un banalissimo e mortificante decimo posto. Si cercavano spiegazioni: deliri di onnipotenza del presidente (col senno di poi l’opzione giusta), giocatori stanchi e sfiduciati dopo l’addio di Spalletti, rinnovi di contratto non fatti né per tempo, né bene. Poi, però, ognuno nelle proprie case, pensava, è Napoli, siamo noi, noi che non sappiamo diluire una gioia nel tempo, noi che siamo ingordi. Si rifletteva. È il vuoto su cui regge la città, troppa instabilità, gli alti e bassi sono naturali, non possiamo sfuggirgli. La felicità va scontata diceva qualcuno, ma non così in fretta gli rispondeva un altro. Nei vicoli dei Quartieri, nei Decumani, a Chiaia, a Materdei, al Vomero si percepiva il dramma e allo stesso tempo ci si scuoteva le spalle, conoscendone l’inevitabilità. Vivevamo in una sorta di Le conseguenze dell’amore, in cui un ipotetico Toni Khvicha Servillo girava per la città, mani in tasca, Ornella Vanoni in sottofondo, ma stavolta la canzone era L’Appuntamento. Primo piano su Servillo che canticchia, ho sbagliato tante volte sai, zoom su via Caracciolo, titoli di coda con la classifica di Serie A, con il Napoli decimo a mille punti dall’Inter. Qua, eravamo rimasti qua.
E dopo abbiamo ricominciato in un altro modo e oggi siamo di nuovo felici, e ci facciamo di nuovo caso. Abbiamo imparato a masticare insieme al dialetto nomi nuovi come McTominay (il miglior calciatore del campionato), come Gilmour. Abbiamo accolto Antonio Conte – al netto delle simpatie – guardando alle sue competenze, al Napoli occorreva un allenatore molto bravo, uno che sapeva il fatto suo. E, come abbiamo potuto vedere, ha fatto davvero il suo. Perciò queste bandiere nuove con cucito sopra il numero 4 devono buona parte della trama al tecnico salentino, ma il tessuto è ottimo filo di Scozia. L’allenatore è stato pagato tanto ma lo stipendio se lo è guadagnato fino all’ultimo euro. Così stanno le cose, così devono stare.
Alle 22.48 del 23 maggio la città è esplosa ed è stata una festa spontanea, liberatoria, una vera festa scudetto. Il popolo azzurro che attende fino alla fine e poi finalmente accende i fuochi d’artificio e balla tutta la notte, e chissà per quanti giorni ballerà. Tra le tante cose, questo scudetto si differenzia da quello meraviglioso di due anni fa proprio per il momento in cui l’attesa si è trasformata in trionfo. La gioia del 2023 è stata diluita nel tempo, a fine gennaio non c’erano già più dubbi su chi avrebbe vinto il campionato. I lucchetti di ogni scaramanzia erano saltati, Napoli era colorata d’azzurro e si festeggiava ogni giorno. Le persone si sorprendevano a canticchiare per strada senza motivo, le bandiere e le magliette con il terzo scudetto erano in mostra ovunque, ogni cinque minuti qualcosa di azzurro si aggiungeva all’architettura della città. Questa è una gioia tutta diversa, una luce inattesa, uno squarcio nella notte stellata. E allora la festa è concentrata in un tempo unico, un lunghissimo istante messo alla fine del libro. La festa è quello che accade dopo la parola fine. Dopo che McTominay e Lukaku hanno segnato due bellissimi gol contro il Cagliari, dopo le migliaia di fiammelle del Maradona, dopo i cinque minuti di recupero più lunghi di sempre. La festa è allo stadio e per le strade. La festa è a piazza del Plebiscito, è nei Quartieri, e alla Sanità, è a Materdei, a Chiaia, è a via Caracciolo, a Mergellina. La festa si espande da Foria a Capodimonte e arriva in ogni paese della provincia. Arriva fino a casa mia, a Venezia, con video che il mio smartphone scarica a decine. Sembra Capodanno, dicono, e non lo è? Del resto, un campionato è sempre la fine di qualcosa.
Scrivo questo pezzo andando con la memoria e con il cuore all’indietro, ho 54 anni (compiuti un paio d’ore dopo il fischio finale di Napoli-Cagliari), e gli scudetti del Napoli li ho vissuti tutti e quattro, i primi due da ragazzo che viveva ancora là, gli altri da lontano. Mi rendo conto che sono stati tutti diversi l’uno dall’altro, a tutti e quattro ho appeso una quota della mia parte di gioia. Quella del primo, in cui Maradona ci aveva insegnato a vincere e aveva ricordato a noi ragazzi che esistevano delle possibilità, e che tutti quanti potevamo farcela. Quella del secondo, già più ragionata, malinconica – sapevamo in cuor nostro che gli anni di Diego in città stavano finendo –, stavamo crescendo e non ne avevamo troppa voglia, ci sarebbe mai più capitato di scendere in strada una notte intera a ballare e a cantare impazziti e uniti sotto un solo colore? Quella del terzo, goduta e piena di bellezza di partita in partita, diluita, sciolta, e aspettata 33 anni, stavolta (e per sempre) senza mio padre che non ha fatto in tempo. Una gioia silenziosa per me, perché cambiamo, e l’ho lasciata andare camminando di notte con i cani lungo le Zattere qui a Venezia. E l’ultima, forse la più complicata da raggiungere, nessuno di noi la intravedeva ad agosto, a settembre. Una gioia costruita mattoncino dopo mattoncino, una gioia da cantiere finito, da tegole messe al posto giusto, una gioia da facce stupite. Una gioia che vediamo bene negli occhi dei bambini perché in quello splendore riconosciamo i ragazzi che siamo stati, i bambini che inseguivano una palla. Gli occhi di quei bambini e di quelle bambine vestite d’azzurro guardano al futuro, e allora la gioia, la quota di gioia che ci rimane da spendere la affidiamo a loro, ne faranno un uno migliore di quello che potremmo fare noi. Nel giorno dello scudetto, qualche ora prima, il Comune di Napoli ha riconosciuto lo Stato della Palestina, anche questa notizia bella e dall’alto valore simbolico la affidiamo ai bambini, perché quello che spetta a tutti loro – tutti – è di sognare, di correre appresso a un pallone e di vivere. Vivere.
Il Napoli di quest’anno non è stato sempre brillante ma è stato solido, costante. Ecco, Conte e la squadra ci hanno ricordato che bisogna essere continui, che bisogna saper lottare, stringere i denti. Ci hanno spiegato come si devono portare a casa partite nelle quali non si è giocato magari benissimo. A dispetto di quello che si dice sull’assenza del bel gioco, diciamo qua che non siamo d’accordo. Il Napoli ha fatto diverse belle partite, alcune bellissime. E le più belle sono state proprio contro le avversarie più difficili. La partita di ritorno a Bergamo contro l’Atalanta vinta per 3-2, quella a Napoli contro la Juventus vinta per 2-1, oppure – sempre al Maradona – il secondo tempo contro l’Inter (che vinceva 1-0) e che gli azzurri hanno recuperato negli ultimi istanti, togliendo per 45 minuti il respiro agli interisti, fino al gol di Billing. Ecco, Billing, per esempio, chi era costui? Prima che il Napoli lo prendesse nel mercato di gennaio nessuno lo conosceva, eppure anche lui, a piccoli passi, con pochi minuti sparsi qua e là, ha scritto una parte importante di questa storia. Ha tolto due punti all’Inter in una partita decisiva.
Per capire bene cosa ha fatto il Napoli e quanto i calciatori e l’allenatore ci abbiano sempre creduto bisogna andare di nuovo a Napoli-Juventus. Il Napoli sta vincendo 2-1 – sarà il risultato finale – Anguissa e Lukaku hanno recuperato il gol di Kolo Muani, sono gli ultimi istanti e Giovanni Simeone fa una delle cose più simboliche del campionato. Su un recupero palla dei bianconeri, l’attaccante argentino si getta in tuffo di testa, una sorta di nuovo tipo di tackle, e toglie il pallone dai piedi di un avversario. Ecco, se dovessi spiegare il Napoli di Conte, partirei da quel momento. La squadra è stata esattamente quella cosa.
E dopo è stata Politano che corre lungo la fascia destra, sempre sfinito a fine partita, ma sempre encomiabile. Di Lorenzo, il capitano che è rimasto, convinto da Conte, e che si è ritrovato, ritornando quello di due anni fa. Rrahmani, forse il miglior difensore del campionato. Spinazzola, Olivera, Neres, loro tre e la fascia sinistra. Anguissa nella sua stagione più splendente con ogni probabilità. Lobotka, quasi sempre, e di nuovo, perfetto. Gilmour uscito da una canzone dei Blur, McTominay che ha impattato sulla serie A come un alieno carico di nozioni agli altri sconosciute e ha dominato. Raspadori ancora una volta decisivo, importante, migliorato tantissimo. Lukaku forse non esplosivo come ai tempi dell’Inter, ma decisivo con un carico di gol e assist che valgono metà del totale. Buongiorno, poi, luminoso, sempre preciso. Meret decisivo, guardato con sospetto, sottovalutato. E tutti gli altri, come Juan Jesus che ogni volta sembra finito e poi non lo è mai. Ed è stato Conte che ha fatto convergere su di sé tutto, che ha assorbito la cessione di Kvara a gennaio scuotendo appena la testa.
Poi sono stati i tifosi del Napoli che navigando sottotraccia ci hanno sempre creduto e hanno riempito gli stadi a ogni partita, in casa o fuori casa. Gli addobbi per la festa li hanno messi anche loro, ora è tempo di brindare, ora è tempo della torta. In questi giorni Napoli è bellissima, più bella che mai.