Alle Assise criminali il contestato passaggio delle azioni di due società. Due imputati alla sbarra per ripetuta amministrazione infedele qualificata
«Donare le mie società a mio nipote? No, non scherziamo». Il rapporto tra zio e nipote e svariate decine di milioni di franchi, sono al centro del processo che vede alla sbarra due imputati. Un 57enne svizzero (dispensato dal presenziare in aula per motivi di salute) deve rispondere di ripetuta amministrazione infedele qualificata, siccome commessa per procacciare a sé o ad altri un indebito profitto; appropriazione indebita e ripetuta falsità in documenti. Il secondo imputato, un 53enne avvocato italiano, di istigazione alla ripetuta amministrazione infedele aggravata (siccome commessa per procacciare a sé o ad altri un indebito profitto), ripetuta appropriazione indebita, istigazione all'appropriazione indebita e ripetuta falsità in documenti. A presentare la denuncia, nel 2019, è stato lo zio del 53enne, un facoltoso milanese oggi 92enne. Oggetto del contendere è un documento che l’anziano avrebbe firmato dichiarando di donare al nipote le azioni della società proprietaria di un immobile a Milano del valore stimato di 42 milioni di euro e, in seguito, di una seconda società che deteneva valori patrimoniali di poco inferiori ai 7 milioni di euro, incassando affitti e svolgendo transizioni finanziarie su conti luganesi. L'anziano ha negato di aver firmato i documenti allestiti dal suo rappresentante, il 58enne, che avrebbe sfruttato il rapporto di piena fiducia tra zio e nipote. Anche le due perizie effettuate negli anni hanno raggiunto risultati diversi.
La prima giornata di processo davanti alla Corte delle Assise criminali presieduta dal giudice Paolo Bordoli (a latere Chiara Ferroni e Renata Loss Campana) si è sviluppata tra eccezioni procedurali, richieste probatorie, schermaglie giuridiche e l'interrogatorio di zio e nipote. Il dibattimento proseguirà domani con la richiesta di pena della procuratrice pubblica Raffaella Rigamonti (che presenterà una richiesta di condanna inferiore ai 5 anni). Toccherà poi all'avvocato Giampiero Berra, legale del 92enne che si è costituito accusatore privato. La parola passerà poi agli avvocati Emanuele Stauffer e Davide Ceroni, che si batteranno per l'assoluzione dei due imputati. La sentenza potrebbe essere pronunciata nella serata di mercoledì.
Quelli che hanno vissuto zio e nipote sono stati, a detta di entrambi, «ottimi rapporti» paragonabili a quelli «tra padre e figlio». Al punto che, al compimento dei 75 anni, l'anziano decide di affidare al «nipote prediletto» l'amministrazione generale ordinaria del suo patrimonio. E lo mette per iscritto su un testamento. Al documento, nel 2017, aggiunge poi «un codicillo» per stabilire il futuro di altri beni. Nel 2008, ha aggiunto l'anziano, sentito come persona informata sui fatti rispondendo alle domande degli avvocati e del giudice, «non avevo sospetto di malversazioni. Ho fatto testamento per l'avanzare dell'età» e l'assenza di eredi diretti. «Non ho mai avuto intenzione di cedergli le mie società o parte di esse», ha però risposto in modo risoluto, e a più riprese, lo zio. La gestione dei beni riguardava innanzitutto due società, una delle quali a Lugano. «L'ho portato in Svizzera e gli ho presentato gli operatori del settore. Per i primi anni «ero tranquillo – ha aggiunto il 92enne –. Mi riferiva che tutto era in regola, che i soldi venivano depositati sui conti e che tutto proseguiva in modo regolare». Poi la frattura che ha portato alla denuncia: tra il 2016 e il 2017 nonostante le sollecitazioni, il nipote non ha più fornito i rendiconti delle aziende allo zio.
Interrogato sui fatti, il 53enne ha affermato di «non essere stato onorato di una donazione: sono stato caricato di una responsabilità. Quello che sono lo devo in parte a mio zio: sono la sua staffetta». Tra zio e nipote «c'è un accordo», ancora valevole che stabilisce che «di questo patrimonio sono un continuatore, nell'interesse dei miei figli e dei miei fratelli. Non sono scappato, sono qui, lavoro 20 ore al giorno e sto affrontando questo processo». In futuro «continuerò a far avere allo zio quanto necessario, ma non per pagare gli avvocati che mi denunciano». Scusandosi per «lo sfogo di un vecchio, con problemi di udito, che non ne può più di questa situazione che mi ha ridotto sul lastrico», lo zio ha dichiarato di ricevere duemila euro al mese e di sopravvivere «grazie alla vendita di pezzi di antiquariato di sua proprietà».
Rispondendo alle accuse, il 53enne ha detto che «non posso restituire nulla di ciò che avrei sottratto perché non ho rubato nulla». E sulla possibilità di aver falsificato la firma del congiunto ha specificato di «non aver mai firmato qualsiasi documento con la firma di mio zio. Non escludo che nell'ambito di procedure italiane mi abbia chiesto di farlo al suo posto, ma questo non è successo per i documenti di questo procedimento». Ribadendo quanto già emerso nell'istruttoria, il 53enne ha aggiunto che «se mio zio avesse dichiarato di aver fatto un errore, mi sarei seduto a un tavolo e ne avrei discusso». La premessa è però stata che «avrei rubato le sue proprietà: questo non lo posso accettare, mi devasta e non può essere un valido punto di partenza per iniziare una discussione». Nelle sue attività di amministratore delegato delle società «ho fatto quello che mio zio e le persone che lavoravano con lui, e con le quali ho continuato a lavorare, mi dicevano di fare. E sono andato avanti così anche dopo aver ricevuto la proprietà delle società: non ho mai pensato di dovermi trovare in una situazione come questa». A caratterizzare le attività ci sono state anche «procedure esecutive e giudiziarie civili e anche una fiscale legata a una proprietà in Germania che lo faceva soffrire parecchio».