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Ecco i campioni con il frigo vuoto

Il Platense si è laureato campione d’Argentina per la prima volta in 120 anni di storia, portando alla ribalta football di quartiere e giocatori marginali

In sintesi:
  • Ormai non succede quasi più, ma ogni tanto per fortuna capita ancora di veder trionfare squadre del tutto marginali come il Platense, partita come sempre da totale outsider ma poi laureatasi campione d’Argentina
  • Il successo del Calamar – così è soprannominato il club – è soprattutto merito di giocatori scartati dalle grandi squadre e riscattatisi poi in periferia, sotto la guida di due tecnici che magnificamente incarnano lo spirito del quartiere dove ha sede la società
  • Fra le curiosità legate a questo inatteso successo, anche una figurina di papa Bergoglio cucita sulla maglia da gioco, rivelatasi un infallibile portafortuna
4 giugno 2025
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E così, mentre a Monaco di Baviera il Psg alzava per la prima volta la Champions League, dall’altra parte del mondo, a dodicimila chilometri di distanza e a testa giù, un’altra squadra si preparava a celebrare il primo trofeo della sua longeva storia, a togliersi la prima soddisfazione in centoventi anni: il Club Atlético Platense ha segnato il suo nome nel palmarès del campionato argentino dopo una finale stramba, quasi volontariamente antitetica al calcio ipercapitalistico d’Europa.

Da una parte il club proprietà del fondo sovrano qatariota, dall’altra – comunque fosse andata, dal momento che a contendere il titolo c’era l’Huracán – un club de barrio, minuscolo rispetto alle superpotenze locali, ricco solo, come ha detto uno dei due tecnici del Platense, Sergio Gómez, di giocatori che ‘sono animali, con una fame da lupi e il frigorifero vuoto’. Quella andata in scena, quindi, è stata la miglior sublimazione che si potesse immaginare di un ‘fulbo’ un po’ straccione, pieno sì di sentimento, ma anche di un provincialismo un po’ ‘cursi’. L’atto finale è stato introdotto da un concerto degli Yerba Brava, band cumbiera, e dalla messinscena di un mariuolo che col volto coperto da un cappuccio ha invaso il campo per portarsi via il pallone, una gag che da spot contro la pirateria che si è trasformato in perfetta polaroid dello stato dell’arte di un Paese in cui tutto sembra alla mercé di chi vuole impossessarsene. Tutto, tranne il calcio. La finale si è svolta a Santiago del Estero, a mille chilometri da Buenos Aires, la città dei due club: qualcosa di apparentemente nonsense, ma che acquista significato se assumiamo il titolo come qualcosa da conquistare, il passo con cui si marca l’attraversamento della frontiera. Anche quella della credulità.

Incantesimi da spezzare e identità de barrio

Le motivazioni per alzare il trofeo del Torneo Apertura non mancavano di certo a nessuna delle due squadre. L’Huracán non sale sul gradino più alto del podio nazionale dal 1973, quando sulla panchina del Globo sedeva César Luis Menotti e in campo, a interpretare la ‘nuestra’ in una delle sue massime incarnazioni, c’erano Babington, Basile, Brindisi e El loco Houseman. Il Club Atlético Platense, dalla sua, non c’era mai neppure andato vicino.

Eppure, se ciò di cui c’era bisogno era un bagno di argentinità, nessuno avrebbe potuto portare a compimento la missione meglio del Calamar, soprannome che deriva dal fatto che i pionieri del club giocavano in un campo vicino al Rio de la Plata, che spesso si inondava e lasciava i calciatori tutti pieni di fango, a ‘muoversi come calamari nel loro inchiostro’.

Non c’è club, infatti, che sia più argentino del Platense: fondato il 25 Maggio (una data non casuale, è l’inizio del processo di indipendenza del Paese) da ragazzi che hanno messo su i soldi necessari scommettendo sui cavalli all’ippodromo di Parque General Paz, i suoi barrios primigeni sono quelli di Saavedra – che prende il nome dal primo presidente della Giunta governativa argentina – e Vicente López, l’autore delle parole dell’inno albiceleste. Due quartieri in cui è racchiusa l’eterna dicotomia del Paese – tradizionalmente peronista (anche se ultimamente gentrificato) Saavedra, bastione storico dei liberisti conservatori di Propuesta Republicana Vicente López –, e nei quali la parabola del Calamar si è dipanata spesso intabarrata nel fango malmostoso dell’Ascenso, la serie B, con una fugace ed estemporanea apparizione nei piani alti a metà anni Sessanta, quando il club allenato da Ángel Labruna si fermò solo di fronte al maledetto Estudiantes di Zubeldía, Bilardo e la bruja Verón, papà di Juan Sebástian, recentemente scomparso. Il Club Atlético Platense, e i suoi barrios, però, sono sempre stati nelle parole di eminenti scrittori, da Leopoldo Marechal (che ha ambientato in quell’area buona parte del suo Adán Buenosayres) ad Alejandro Dolina, ma soprattutto nel cuore di molti tifosi eccellenti, primo tra tutti il più grande autore di tango secondo gli argentini, el Polaco Roberto Goyeneche, socio vitalizio del club (con tessera numero 2550) che andava allo stadio in smoking e spesso e volentieri perdeva la voce per incitare i Calamares, e al quale ogni volta che si trovava in tournée, quando chiamava a casa, interessava sapere due cose soltanto: «Come stanno i ragazzi?». E poi: «Che ha fatto il Platense?».

Matagigantes o miracolati?

Sarebbe stato bello se Goyeneche si fosse sentito rispondere, oggi, per la prima volta: «Il Platense è campione, viejo». Perché in questa vittoria ci sono tutte le contraddizioni e la poesia di una rincorsa imprevedibile, possibile solo nello stranissimo meccanismo del ‘fulbo’. Sesto nel suo gruppo (vinto dal Rosario Central davanti al River Plate), il Platense è entrato in punta di piedi nella fase playoff, di certo non da favorito ma neppure da potenziale candidato. La vittoria al Cilindro, in casa del Racing, è stata solo la prima tappa di una cavalcata esaltante, che ha trovato il suo picco più alto nell’impresa del Monumental, dove il Calamar, di fronte a ottantamila persone, si è sbarazzato ai rigori dei Millonarios, per poi andarsi a conquistare la finale di fronte al San Lorenzo, la squadra per la quale faceva il tifo Jorge Bergoglio. E proprio a Papa Francesco è legata una delle superstizioni che hanno accompagnato il trionfo del Calamar: dalla sua scomparsa, infatti, il Platense ha cominciato a indossare, sulla sua iconica maglia marrone (la maglia che Roberto El Negro Fontanarrosa sceglieva nelle partitelle come promemoria dello spirito e dell’identità di quartiere), una toppa con la sagoma del pontefice. Vaglielo a spiegare, a un tifoso di Saavedra, che è solo una coincidenza che da quando la sagoma del Santo Padre ha fatto la sua comparsa, il Calamar non ha perso una partita. Miracolati, in effetti, o quantomeno attraversati da un alito divino che li ha messi in stato di grazia, i neocampioni sembrano esserlo davvero, dal primo all’ultimo.

Dal portiere Juan Pablo Cozzani, arrivato l’estate scorsa dopo una stagione a difendere pali scrostati delle serie minori, a Vicente Taborda, scartato dal Boca Juniors di Román Riquelme e capace di affermarsi, col Calamar, come uno dei migliori diez del campionato. Uno dei due tecnici, Sergio Gómez, l’ha ripetuto spesso, durante la stagione: «Il Platense è il club delle opportunità». A Saavedra reietti, scarti, giocatori in cerca di motivazione hanno trovato l’El Dorado, la fonte dell’eterna giovinezza. «Il Platense ha aperto le porte a molti di noi, che per tutto questo tempo hanno dovuto ingoiare merda», ha dichiarato Orsini, altro paria tagliato dal Boca.

Taborda è stato l’autore del gol del momentaneo vantaggio nella sfida al River Plate, poi conclusa ai rigori dopo il pari Millonario arrivato per un errore arbitrale. Negli occhi del capitano Ignacio Váquez, che durante il sorteggio per i tiri dagli undici metri non ha guardato neppure una volta l’arbitro negli occhi, c’era tutto l’orgoglio e la tenacia ribelle di una squadra di morti di fame con il frigorifero vuoto. Ma anche, forse, la sceneggiatura che aveva in mente il destino. L’eroe della finale, Guido Mainero, è la perfetta incarnazione delle seconde opportunità. Dopo un decennio a spasso per le serie minori, con una parentesi in cui alternava il campo al lavoro in una fabbrica di rondelle, uno che per anni si è andato ad allenare in sella a una bicicletta gialla, per Mainero mettere «una estrellita en el pecho», una stellina sul petto, è stato ben più di un successo sportivo: la conferma del potere pantocratico della fiducia, dell’impegno, della costanza. E anche la certificazione del fatto che quando il fuoco sacro comincia ad arderti dentro, tutto sembra più facile. Anche segnare un gol di volée che regala alla tua squadra il primo titolo nella storia. Gli eroi che non ci meritiamo, ma di cui abbiamo bisogno.

I due tecnici

Gli artefici del trionfo Calamar, oltre ai giocatori, sono ovviamente anche i due tecnici, Sergio Gómez e Favio Orsi, duumvirato capace di costruire una squadra solida, cinica, dal gioco non eclatante ma funzionale, ma soprattutto motivata. Insieme da dieci anni, i due sono arrivati ad allenare in Primera soltanto tre anni fa, dopo un decennio tra Ascenso e terza serie, promozioni miracolose e addii polemici. Il loro successo più grande, alla guida del Club Atlético Platense, è stato quello di coltivare, soprattutto, il senso di rivalsa di calciatori marginalizzati, motivarli, cambiargli la vita. Difficilmente, l’anno prossimo, molti dei campioni saranno ancora al Calamar per disputare la Libertadores: ne arriveranno altri, cresciuti nelle villas miserias o tra i banchi di una fabbrica, per continuare a coltivare il sogno che è in primis quello del quarantacinquenne presidente Ordoñez, uno dei più giovani del calcio argentino, nato e cresciuto a Saavedra, così hincha da aver rischiato di perdersi la notte più importante della sua vita dopo una denuncia da parte del ministero della Sicurezza per aver scagliato una bottiglia contro un vetro nella semifinale al Nuevo Gasometro, contro il San Lorenzo.

Con le sue scelte, anche controcorrente, ha rafforzato l’identità del Platense, il suo animo de barrio. Dando vita a uno dei miracoli più romantici di fine stagione, con migliaia di tifosi Calamar a festeggiare per le vie di Santiago del Estero con un pensiero a chi è rimasto a Saavedra, e viceversa. Un calcio che sarebbe impossibile con la privatizzazione delle società, con quelle Sad che Javier Milei vuole fortemente, con la fagocitazione del ‘fulbo’ per mano dei capitali, degli interessi, del culto della vittoria. I club de barrio, le cenerentole, le squadre che non vincono mai sono – e rimarranno a lungo – ancora lì, per fortuna, a dimostrarci che in fondo il calcio può ancora essere quel gioco che si fa nei potreros. Dove non sempre vincono i più forti tecnicamente, o quelli con le magliette più belle, ma anche squadre che non l’hanno fatto mai, e che quando spalancano il frigorifero lo trovano vuoto, anche se hanno una fame da impazzire.