Lorenzo Costaguta, insegnante di Storia degli Stati Uniti a Bristol: ‘La California, con il suo multiculturalismo, è il nemico ideale del presidente’
Le proteste contro le retate anti-immigrati in California sono deflagrate in una crisi costituzionale: Trump ha mobilitato Marines e Guardia Nazionale, mentre il governatore Gavin Newsom parla di “democrazia sotto assedio”. Alcuni commentatori evocano gli scenari del recente Civil War, e non certo per mera cinefilia. Esagerano? Lo abbiamo chiesto al professor Lorenzo Costaguta, che insegna Storia degli Stati Uniti all’Università di Bristol e si occupa di teorie della razza e storia del movimento operaio americano.
Quindi chi ha ragione, tra Trump e Newsom?
Il presidente degli Stati Uniti non ha tra le sue funzioni quella di intervenire nella gestione dell’ordine pubblico degli Stati, a meno di situazioni di assoluta eccezionalità come una guerra o un’invasione. Storicamente, vi è sempre stata la massima attenzione da parte dei presidenti in carica a non prevaricare questo limite. È successo che i governatori chiedessero l’intervento del presidente per sedare rivolte, scioperi o altre sommosse popolari (una pratica comune a fine dell’Ottocento contro i nascenti sindacati dell’epoca, per esempio). Invece, si contano sulle dita di una mano le situazioni in cui un presidente ha sopravanzato un governatore statale inviando la guardia nazionale, e in entrambi i casi avvenuti nel novecento (Dwight Eisenhower nel 1957 in Arkansas e John F. Kennedy nel 1963 in Alabama) l’eccezione è stata fatta per ripristinare la legalità, nello specifico imporre il rispetto di una sentenza della Corte Suprema (la storica Brown v. Board of Education del 1954 che stabilì la desegregazione delle scuole del Paese).
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Fumogeni e tenuta antisommossa
Quindi su un piano istituzionale il comportamento di Trump è solo molto aggressivo o possiamo già parlare di eversione?
La Casa Bianca sta usando l’argomento della legalità, giustificando l’uso di guardia nazionale e marines sulla base di una presunta “invasione” di immigrati irregolari avvenuta sotto la presidenza Biden. È una tesi che dal punto di vista legale non sta in piedi, ma che sfrutta in maniera capziosa gli spazi interpretativi lasciati da un sistema basato su una Costituzione anziana e poco chiara da una parte, e il meccanismo del precedente legale dall’altra. Gli atti di Trump sono incostituzionali secondo la dottrina attuale, ma nel sistema americano la Corte Suprema rivede la dottrina continuamente con le proprie sentenze, e prima che si arrivi a sentenza sulle azioni di questi giorni i fatti saranno già compiuti. È in questo spazio che sta agendo l’amministrazione Trump per portare avanti i propri obiettivi politici.
Obiettivi come accelerare la crisi del modello della California, così saldamente democratica?
La California è un po’ vittima del proprio successo. Vengono in mente subito Hollywood e la Silicon Valley, ma non è tutto. Se considerassimo la California una nazione a sé stante, si collocherebbe al quarto posto nel mondo, superando il Giappone e tutti gli Stati europei tranne la Germania. Questa crescita, però, ha avuto costi sociali devastanti, tra cui una carenza abitativa senza precedenti, inflazione, spopolamento delle città, gentrificazione. La California offre una qualità di vita altissima a chi se la può permettere, e se la possono permettere sempre meno persone. Infatti da anni perde abitanti, che si spostano verso parti del Paese dove è ancora possibile comprare casa e mettere radici senza essere multimilionari.
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Il lato violento delle proteste
La California ha una lunga tradizione di proteste e conflitti razziali...
Fino agli anni Settanta, la California era una regione peculiare: baciata da una natura rigogliosa, un clima perfetto e una abbondanza di opportunità (terra, in primo luogo), ma isolata da tutto, disconnessa dal resto del paese, lontanissima dal cuore pulsante produttivo che si collocava sulla costa est e nel Midwest. Los Angeles ancora alla metà dell’Ottocento aveva poche decine di migliaia di abitanti, crebbe a dismisura nel XX secolo, alimentata economicamente e in termini di popolazione dal Messico e con il contributo di una larga minoranza afroamericana. È da questo crogiolo multiculturale che escono alcune delle più famose proteste del ventesimo secolo.
Nel 1965, il quartiere di Watts esplose in una violenta protesta contro la polizia, per denunciare i maltrattamenti ricevuti in custodia da una donna. Nel 1992, nuovamente Watts trascinò la città intera in una protesta contro l’arresto dell’afroamericano Rodney King. In entrambi i casi, al di là della specifica vicenda, l’obiettivo della protesta era la denuncia della violenza della polizia, simbolo del potere statale e federale, da parte della comunità afroamericana e delle minoranze razziali in senso più ampio. Esplosioni di rabbia in una guerra a bassa tensione che caratterizza tutta la storia del Paese, quella tra il governo americano e le minoranze, e che continua ancora adesso.
E le proteste di questi giorni?
Hanno caratteristiche simili, ma sono diverse. La similitudine sta nella scintilla iniziale: gli abusi della polizia. Ma in questo caso la comunità che si sta ribellando è tutta la città di Los Angeles, con poche distinzioni di razza e classe, e con un obiettivo molto preciso, la Casa Bianca. Il punto è che le proteste di questi giorni sono il risultato delle provocazioni di Ice (l’agenzia governativa che si occupa di immigrazione), che ha fatto operazioni di rastrellamento con modalità non solo illegali ma anche brutali e assurde, andando a distruggere comunità che fino a quel momento avevano vissuto in maniera pacifica e integrata. Gli Stati Uniti si reggono sulla presenza di milioni di immigrati senza documenti, la California ancora di più che altri Stati.
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Fumogeni e tenuta antisommossa
A conti fatti, cosa vuole ottenere Trump?
Per Trump, la California è il nemico ideale: una sintesi felice tra multiculturalismo e culto del successo che il suo progetto etno-nazionalista vuole lasciarsi alle spalle. Inoltre, è irrimediabilmente democratica, cosa che gli facilita le circostanze in chiave elettorale. Questo intervento è uno dei molteplici tentativi di allargare in termini legali il raggio d’azione del presidente: spingersi fino al confine ultimo della propria autorità per creare un precedente e concentrare più potere su sé stesso. Si dice anche che Trump stia usando queste proteste per distogliere l’attenzione dal “big beautiful bill” che sta passando al Congresso – un bagno di sangue per milioni di americani, che perderanno servizi fondamentali per finanziare tagli alle tasse agli ultramilionari.
E cosa rischia se dovesse perdere questo braccio di ferro?
Non sembrano esserci poteri istituzionali all’orizzonte in grado di fermarlo. L’unico modo in cui Trump potrebbe “perdere” è tirando la corda fino a spezzarla. Cioè se questo scontro si rivelasse un boomerang per la popolarità dell’amministrazione. Al momento i segnali in questo senso non sono molto chiari.
Si dice spesso che Trump marcia su un razzismo che negli Usa è tradizionale ed endemico, ma forse l’elemento dirompente, più che il razzismo, è una xenofobia che in termini così violenti e fobici non sembrava invece, fino a qualche decennio fa, una caratteristica americana.
Sono d’accordo sul fatto che qui si tratti più di xenofobia che di razzismo. Invece, non credo che la xenofobia trumpiana sia una novità nella storia americana. In realtà, fin dall’inizio della propria esistenza il Paese è stato caratterizzato da un fragile equilibrio tra accoglienza e rigetto degli immigrati. A metà dell’Ottocento, il Know Nothing Party divenne popolarissimo con un virulento messaggio nativista, in difesa della cultura protestante e contro la presunta invasione di cattolici irlandesi. Nel 1882, l’esclusione di immigrati asiatici divenne legge della nazione – primo caso di legislazione su base puramente razziale nella storia degli Stati Uniti. L’Immigration Act del 1924, che chiuse le frontiere americane per decenni, fu preceduto da una campagna xenofoba nazionale violentissima, caratterizzata non solo da razzismo ma anche dal ricorso alle più estreme teorie eugenetiche. Non ci aspettavamo che queste idee ritornassero in auge, ma Trump sta facendo rivivere una tradizione molto americana.
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Cartello anti-Trump
I democratici non sembrano riuscire a incidere.
I dem non stanno riuscendo a tenere il passo degli eventi. Hanno una leadership vecchia, disorientata, fossilizzata, che si risveglia dal suo torpore solo quando c’è da tarpare le ali a qualunque tentativo di cambiamento nel partito. Kamala Harris, californiana, è il simbolo di questo fallimento: il suo silenzio è il riflesso della vuotezza strutturale del partito. In questo scenario, sono singole figure a prendersi il palcoscenico quando le circostanze lo permettono, e in questo senso Trump sta facendo a Newsom un gran favore, avendogli portato in casa una crisi in cui il governatore può incarnare così apertamente i valori di accoglienza condivisi da tutti nel partito. Ma finché la vecchia guardia dem detiene questo controllo così serrato del partito, sarà difficile vedere un cambiamento strutturale.
In sintesi brutale, Trump sta compiendo o comunque preparando una svolta autoritaria?
Non c’è e non ci sarà mai un momento in cui Trump potrà apertamente gettare la Costituzione americana alle ortiche. La cultura politica del Paese non lo permette. Ma con la sua amministrazione sta lavorando per cambiare il terreno di gioco politico in maniera strutturale e permanente a favore dei repubblicani. Un piano di egemonia di lungo termine, giocato su molteplici livelli, dalle università ai media. Le elezioni di midterm però sono dietro l’angolo, e la stabilità di lungo termine del Paese è sempre stata garantita da questo meccanismo di campagna elettorale quasi perpetuo. Da questo punto di vista, non importa che i dem siano in crisi nera, perché i meccanismi elettorali funzionano in certa misura da soli, e se le midterm saranno un bagno di sangue per i repubblicani, a quel punto potremmo vedere non solo qualche segnale di protesta da parte di una parte del partito repubblicano, ora del tutto appiattita su Trump, ma anche cambiamenti strutturali nel partito democratico, in vista delle presidenziali del 2028. Se c’è qualcosa che può salvare la democrazia americana, è la forza della tradizione e della ritualità democratica stessa del sistema. Ma non c’è mai stato momento come questo in cui l’intero edificio costituzionale americano sia stato sotto attacco.