Usciva cinquant’anni fa nelle sale americane un leggendario film, di enorme impatto emozionale e capace di mutare la storia e lo statuto dei blockbuster
«We’re gonna need a bigger boat». Ci serve una barca più grossa. È quanto dice Roy Scheider, sguardo allucinato e sigaretta incollata alle labbra, quando per la prima volta vede da vicino lo squalo e si rende conto di essersi lanciato in una missione al di là delle capacità umane. Il film è iniziato ormai da un’ora, e il terrificante pesce – di cui fin lì si è soltanto avvertita la presenza – appare al massimo per mezzo secondo, ma quella scena racchiude in sé tutta la potenza di una pellicola fra le più memorabili dell’intera storia del cinema, un capolavoro che, benché proprio oggi compia cinquant’anni, non è invecchiato neanche un pochino. E la celebre frase riportata in apertura, estremamente efficace e inserita in un’opera d’arte in brevissimo tempo divenuta leggendaria, risultò così iconica da entrare – come espressione idiomatica indicante l’inadeguatezza dei mezzi a disposizione – nel linguaggio corrente degli americani, che spesso nemmeno sanno bene da dove il modo di dire tragga origine.
Terzo lungometraggio ufficiale di Steven Spielberg dopo Duel e Sugarland Express – titoli apprezzati nel milieu ma incapaci di far breccia fra gli spettatori –, Jaws (che significa fauci e che in italiano venne tradotto in ‘Lo squalo’), preceduto da un massiccio battage uscì contemporaneamente in 450 sale statunitensi e immediatamente conobbe un trionfo strepitoso sia al botteghino sia sulle colonne vergate dai critici. Anche dai più severi, quasi senza eccezioni, a conferma del fatto che, se un lavoro è fatto bene, al cinema come in libreria, riesce a coniugare alla perfezione velleità artistiche e indotto da blockbuster. E, in effetti, questo film capace di consacrare definitivamente il suo regista, segnare un’epoca, affascinare il pubblico più variegato e tracciare uno spartiacque nella storia di Hollywood, era figlio di un romanzo già di per sé molto valido.
Compilato da Peter Benchley – giovane giornalista del Washington Post e del National Geographic, laureato a Harvard e per un paio d’anni autore dei discorsi del presidente statunitense Lyndon Johnson –, il romanzo da cui Carl Gottlieb nel giro di pochi mesi ricavò la sceneggiatura era ispirato a una storia vera (serie di attacchi di squalo avvenuti nel New Jersey attorno alla metà del Novecento) ed era stato capace di occupare i primi posti delle classifiche di vendita per quasi un anno intero, affascinando, insieme ad altri milioni di lettori, anche Spielberg, che intravide in quelle pagine il potenziale per realizzare un’opera in grado di incantare il grande pubblico ma che fosse al contempo di altissima qualità a livello tecnico e narrativo.
E non si sbagliava: la pellicola che ne trasse, oltre a diventare autentico fenomeno di massa, argomento principe di conversazione da bar e soggetto di infinite disquisizioni da parte della stampa – dai rotocalchi più popolari alle riviste più raffinate – fece infatti incetta di premi, fra cui 3 Oscar, e divenne il titolo che più soldi aveva incassato nell’intera storia del cinema fino a quel momento.
Vicenda dal plot piuttosto banale come del resto innegabilmente assai semplici sono le trame di altri capolavori di ambientazione marina a cui libro e film in qualche modo si ispirano – come ‘Il vecchio e il mare’ di Ernest Hemingway o ‘Moby Dick’ di Herman Melville, ma si possono azzardare liaison perfino con l’Antico Testamento (il Leviatano, la balena di Giona…) o col Kraken della mitologia nordica – questo film ci parla dell’innata e incontrollabile paura di venir mangiati vivi da una belva di dimensioni gigantesche, che si nasconde nelle profondità di un ambiente a noi alieno e ostile, e che apparentemente è impossibile da catturare o uccidere. Ma non per questo ci si rassegna a subire inermi la sua ferocia, anzi: come le opere epiche a cui si rifà, ‘Lo squalo’ è l’elogio della lotta impari in cui l’essere umano si lancia per salvare se stesso e chi gli sta vicino, pur sapendo che, con ogni probabilità, da questo confronto uscirà con le ossa rotte.
Oltre alla terrificante creatura, protagonisti del film sono la popolazione di Amity (l’immaginaria località insulare della costa nordorientale degli States teatro della vicenda), lo sceriffo Martin Brody (Roy Scheider), il ruvido pescatore di squali professionista chiamato Quint (Robert Shaw) e un ricco e idealista oceanografo, Matt Hooper, interpretato da Richard Dreyfuss.
I cittadini, che vivono di turismo e che nell’opera rappresentano il criticabile sistema economico e morale occidentale, vorrebbero ovviamente tener segreta la notizia che nelle loro acque, all’improvviso, è comparso un mostro che pasteggia con carne umana. Anzi, addirittura rifiutano di ammettere l’evidenza – negando le prove raccolte – e lasciano che la gente continui ad andare in spiaggia, consentendo allo squalo di seguitare a banchettare indisturbato. Quando poi però proprio non possono più far finta di niente, accettano seppur di malavoglia la chiusura delle spiagge, a patto che sia soltanto per un paio di giorni. Al weekend del 4 Luglio, infatti, non sono assolutamente disposti a rinunciare: non tanto per amor patrio, quanto per mero calcolo da bottegai. E, così, mettono insieme i soldi per ingaggiare un esperto uomo di mare, teoricamente in grado di risolvere il loro problema giusto in tempo per salvare gli incassi dell’imminente Festa nazionale.
Lo sceriffo, che ha paura dell’acqua e che vive su un’isola soltanto per amore di sua moglie, è divorato dai rimorsi per non aver insistito con l’idea di vietare la balneazione, imprudenza che è costata un altro paio di vite umane. E, dunque, decide di unirsi al cacciatore benché, come detto, col mare non abbia dimestichezza alcuna. Dell’equipaggio – a cui si aggiungerà a scopi squisitamente scientifici anche il già citato ittiologo – Brody è l’unico che sarà capace di mantenersi razionale fino alla fine.
Il giovane ed entusiasta Hooper infatti, che incarna lo spirito ecologista che proprio mezzo secolo fa cominciava a emergere, a causa della sua smania per la salvaguardia della natura finisce per mettere in pericolo la vita di tutti e tre. Mentre Quint – che inizialmente è guidato nella sua missione dalla metodica perseveranza del Santiago di Hemingway – col passare delle ore scivola invece nella folle ossessione dell’Achab di Melville, che gli risulterà fatale: finirà infatti divorato dal pesce che aveva giurato di uccidere.
L’ipertrofico squalo comincia ben presto a mietere vittime – un paio di minuti dopo i titoli di testa –, noi spettatori però praticamente non lo vediamo mai: si tratta di un espediente narrativo che magistralmente contribuisce, proprio perché nasconde il nemico, a far crescere a dismisura suspense e terrore. La scelta, ad ogni modo, non fu soltanto figlia della genialità di Steven Spielberg, ma pure di contingenze avverse: i tre squali meccanici creati dai responsabili degli effetti speciali – benché fossero il meglio che Hollywood potesse realizzare a quei tempi – funzionavano spesso a singhiozzo, o addirittura si bloccavano del tutto, per via dell’acqua salata in cui erano quasi sempre immersi. E così il regista modificò i propri piani, decidendo per gran parte del film di soltanto suggerire la presenza dello squalo, invece di mostrarlo nella sua interezza. E ciò, come detto, si rivelò una mossa azzeccatissima, in grado di accrescere fino allo spasmo le emozioni di chi, in sala, aveva pagato il biglietto. Insieme, naturalmente, alla sapienza dimostrata da un regista ancora ragazzo (aveva soltanto 28 anni) nel girare sulla terraferma come in alto mare: molte delle sequenze di Jaws, con inquadrature e tagli all’avanguardia, hanno in effetti fatto scuola e storia.
Enorme merito per la riuscita di un film dalla lavorazione travagliata e caratterizzato da continui sforamenti del budget va attribuito senza ombra di dubbio pure al grande John Williams, una specie di Ennio Morricone d’Oltre Atlantico, insignito di 26 Grammy e una manciata di Oscar. Le musiche che scrisse per ‘Lo squalo’, e in special modo il tema che accompagna il mostro quando si avvicina alla sue vittime – un crescendo ansiogeno composto da due sole note (il celeberrimo tum-tum oggi universalmente conosciuto e riconosciuto) che anticipano e descrivono alla perfezione cosa sta per accadere appena sotto la superficie del mare –, rappresentano infatti una componente senza la quale l’opera sarebbe risultata incompleta, tristemente impoverita, privata di gran parte della sua stessa anima. Non a caso, la pellicola si aggiudicò – oltre all’Oscar per il montaggio – anche quelli per il sonoro e per la colonna sonora originale. Dall’Academy non giunsero purtroppo altre statuette: del resto, il 1976 fu l’anno della ricchissima messe di riconoscimenti tributati a un altro capolavoro assoluto, cioè ‘Qualcuno volò sul nido del cuculo’, di Milos Forman e con Jack Nicholson, e dunque Spielberg, il suo cast e l’intera sua produzione dovettero accontentarsi di qualche nomination.
Incommesurabile fu l’impatto che, a più livelli, ebbe Jaws alla sua uscita e per moltissimi anni a seguire. Non si contano infatti le citazioni e i riferimenti alla pellicola che appaiono nel mondo della musica, dell’arte plastica e figurativa, nella pubblicità, nel business dei gadget e, naturalmente, in altri film e in altre opere di narrativa, senza ovviamente considerare gli ‘innumerevoli tentativi di imitazione’, come recitava la prima pagina della sempre sia lodata Settimana Enigmistica.
Per menzionare un solo titolo, anche perché lo spazio in pagina sta ormai scarseggiando, scegliamo ‘Il Bar delle grandi speranze’, strepitoso romanzo di J.R. Moehringer in cui con grande efficacia si evoca la latente paura che, da quella lontana estate del 1975 in poi, per colpa di Spielberg ha sempre accompagnato chiunque metta piede in mare anche soltanto per darsi una rinfrescatina, poco più in là del bagnasciuga.