laR+ IL COMMENTO

La guerra del tycoon e i suoi interrogativi

Il più immediato riguarda il futuro dello stesso Iran. E l’America si limiterà alla guerra aerea? Groviglio da cui potrebbe nascere il caos

In sintesi:
  • Sono bastati molto meno di 15 giorni per convincere Trump a passare all’azione 
  • I ‘falchi’ dell’Amministrazione hanno avuto la meglio in coalizione con le istanze di Netanyahu
(Keystone)
23 giugno 2025
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Tutti ad aspettare i quindici giorni di moratoria, apparentemente accordati dal tycoon all’Iran per ottenere la resa della teocrazia islamica. Si racconta che dalla Casa Bianca fosse anche partito un segreto messaggio agli ayatollah: un antico proverbio locale che dice “l’acqua è nella brocca in cucina, mentre noi andiamo in giro a cercarla”. Tradotto, non perdetevi l’ultimissima occasione. Invece di giorni ne sono bastati molti meno per convincere Trump a passare all’azione, il tempo di dare l’ordine, caricare i bombardieri B2 delle micidiali armi “anti-bunker” (un’esclusività mondiale), organizzarne il volo dal Missouri all’antica Persia, e colpire. La superpotenza non poteva più attendere. E soprattutto un Donald Trump ancora una volta accusato di tentennare. Sempre più impaziente, in realtà, di affermare il primato mondiale statunitense, stavolta reinterpretazione in chiave militare globale dell’“America first”, per potersi almeno in parte intestare la ‘grande punizione’ alla teocrazia sciita, privandola della “bomba” che in realtà ancora non c’è, e, secondo diversi autorevoli esperti, non ci sarebbe stata prima di due o tre anni.

Tempo sufficiente per riavviare un negoziato serio sulla denuclearizzazione iraniana. Ipotesi infine scartata da un capo della Casa Bianca pressato dalla base “Maga” del suo partito (in testa Steve Bannon) convinta di aver eletto un presidente che non avrebbe mai esportato una nuova guerra americana, e i ‘falchi’ dell’amministrazione, quelli più vicini all’orecchio del capo, che evidentemente hanno avuto la meglio, in coalizione con le insistenze di Benjamin Netanyahu. Un premier israeliano che celebra ora il suo trionfo. Cominciato subito dopo il terribile attentato terroristico anti-israeliano del 7 ottobre di due anni fa. In una successione di iniziative che hanno portato Israele al massimo di isolamento internazionale in seguito alla “strage degli innocenti” a Gaza (decine di migliaia di morti civili, in maggioranza donne e bambini); seguita dagli interventi anche in Libano per decapitare Hezbollah, in Siria per colpire i referenti armati degli ayatollah, fino all’Iraq e allo Yemen degli Houti. Spegnendo così il cosiddetto “cerchio di fuoco” creato negli anni dall’Iran per garantirsi uno scudo che si è facilmente sbriciolato sotto l’urto militare dello Stato ebraico. Mancava la preda più pericolosa: l’Iran della Rivoluzione sciita, che da Khomeini a Khamenei ha sempre negato a Israele il diritto di esistere, rincorrendo il sogno dell’arma atomica.

Ora, a parte la verifica dei risultati dell’attacco, si pongono diversi interrogativi. Il più immediato riguarda il futuro dello stesso Iran. “Regime change”? Allo stato attuale della situazione politica e sociale dell’ex Persia sembra problematico quel sollevamento popolare pubblicamente invocato da Netanyahu. Soprattutto per mancanza di unità e leadership dell’opposizione interna, per la convivenza non sempre pacifica fra le sue principali componenti etniche, per le possibili resistenze della maggioranza rurale che per mezzo secolo ha beneficiato degli aiuti economici del regime; per la forza repressiva del regime forse rimasta intatta; infine per un possibile residuo di orgoglio nazionale da parte di una popolazione che sente umiliato il proprio Paese (erede dell’impero persiano) prima ancora del potere religioso. E l’America si limiterà alla guerra aerea? Groviglio da cui potrebbe nascere il caos. In più un’evidente mancanza di “exit strategy” da parte israelo-americana. Come sempre quando una presunta libertà viene importata con le armi.