Il cielo tiene finché può e il tributo dei Gotthard al frontman, che grazie alla tecnologia canta con loro dal palco, finalmente si compie
‘Una notte da ricordare’. Così l’hanno annunciata quelli di Moon and Stars, e così è stato. A quasi quindici anni dalla sua dipartita, Steve Lee (1963-2010) è tornato a cantare nella Piazza Grande di Locarno con i suoi Gotthard, lui gigantesco come la sua voce e il vuoto lasciato, i compagni di musica sul palco come nel 2005 all’Hallenstadion, concerto nel quale Steve è stato ‘cristallizzato’ per lo ‘Steve Lee - The Show’ di domenica scorsa.
Non c’entra la virtual reality e nemmeno l’intelligenza artificiale che riporta in vita le vecchie fotografie. È piuttosto il potere della sincronizzazione, quella che già permise a Natalie Cole (1950-2015) di cantare ‘Unforgettable’ insieme a papà Nat (King Cole, 1919-1965), una trovata tecnologica che nel 1991 incantò mezzo mondo davanti alla possibilità data alla figlia di cantare dal vivo con il padre defunto una canzone (da Grammy) che dava il titolo a un album (da Grammy anch’esso) celebrativo del grande genitore. Cosa diversa dagli ABBA, tutti ancora viventi ma oggi visibili solo in forma di ologramma, giovani e belli, nel loro momento di massimo splendore.
E proprio nel pieno del suo splendore artistico se n’era andato Steve Lee, morto il 5 ottobre del 2010 nel Nevada in un incidente stradale, salutato giorni dopo dai suoi Gotthard e dai suoi cari sulla vetta del passo del San Gottardo. “Era innanzitutto un grande amico e poi un grande artista, una gran persona con un gran talento. Sicuramente uno dei dieci migliori cantanti al mondo. E un gentleman del rock”. Così lo ricordava Leo Leoni nel 2020, a dieci anni dalla scomparsa, parlandoci di ‘Steve Lee - The Eyes of A Tiger. In Memory of Our Unforgotten Friend’, un disco tributo sul quale la band aveva ripiegato, perché l’idea originaria era quella di un concerto in suo onore. Concerto che alla fine si è fatto.
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Leo Leoni, domenica scorsa
Nuvole basse sopra Locarno e in terra impermeabili quanti bastano, pronti a coprire t-shirt dei Gotthard di ogni era (il 1996 è davanti a noi, quel tour partiva il 15 marzo dall’Espocentro di Bellinzona), altre dei Motörhead o di altri kings of metal e monsters of rock. Quando la band più famosa di Svizzera prende la via del palco, il cielo tiene. E quando Steve Lee appare alle spalle dei suoi colleghi su ‘All We Are’ e poi ‘Dream On’, nessuno può esimersi dal deglutire o da qualsiasi altro gesto provochi la commozione. “Siamo tornati a casa, dove tutto è cominciato”, dice Nic Maeder in svizzero-tedesco; qualcuno gli grida “in italiano!” e poco importa, c’è Leo Leoni a parlare la lingua del posto, tra un solo e l’altro della sua Gibson nera. Dopo ‘Hush’, è Leo con la talk box ad aprire ‘Mountain Mama’, mentre alle sue spalle un’eruzione magmatica minaccia il Matterhorn.
‘Steve Lee - The Show’ è una carrellata di hit più o meno internazionalmente note, ma tutte distintive di un’intera carriera: da ‘Let it Be’ a ‘Top Of The World’, da ‘Said & Done’ a ‘One Life, One Soul’, la ballad, con Leo e Steve a dividere il palco e lo spazio-tempo. Su ‘Sister Moon’ si rivede alla batteria di Hena Habegger, mentre su ‘Firedance’, dall’album d’esordio, lingue di fuoco accendono il palco che nemmeno l’Eurovision. Il cielo comincia a lasciarsi andare su ‘In The Name’, ma della pioggia si accorgono solo quelli che non cantano su ‘Homerun’ e ‘Lift U Up’. Un esercito di cornamuse puntella un accenno di ‘Eye of The Tiger’ e la pioggia è di stelle filanti.
“Quattordici anni fa mi venne chiesto se avessi da fare per il resto della mia vita. Entrare nella band dopo Steve era un lavoro impossibile. Voi fan mi avete dato coraggio”. Nic si prende un lungo applauso, un premio per il lavoro impossibile ma riuscito e per l’essersi messo da parte in questo show fino a ‘Rememeber It’s Me’, la prima canzone incisa coi Gotthard su ‘Firebirth’, il primo album senza Steve, una specie di ‘Back in Black’ di chi sceglie di continuare nonostante la perdita. ‘Burning Bridges’ è dedicata al pubblico, ‘Heaven’ è del pubblico. Chiude l’inno dylaniano ‘Mighty Quinn’, da preferirsi all’originale e non è piaggeria. E altra storia dei Gotthard è fatta.
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Nic Maeden, domenica scorsa
Il concerto è finito, la pioggia dura il tempo di ‘Take Me Home, Country Roads’ di John Denver, un coro di infradiciati che rimbalza sotto i portici. Poi il coro diventa quello di ‘Sweet Caroline’, una cosa che va bene per tutto, dal calcio agli open air.
“È stato come averlo in studio”, diceva Leo Leoni commentando il disco del 2020. «È inutile dire che per la testa sono passati tanti dei momenti trascorsi insieme sui palchi», ci dice Leo il giorno dopo The Show. «Perché ci sono emozioni che si portano dentro e non se ne andranno mai». Quanto accaduto domenica scorsa è stato «un mix di belle emozioni e un po’ di malinconia per quello che non c’è più. Soprattutto quando è salito Hena, che per un attimo è sembrato di avere la line-up dei tempi che furono». Due parole sul maltempo: «Ce l’ha data buona, almeno fino a un certo punto. Questa pioggia che arrivava e poi se andava ci ha messo del suo a rendere tutto un po’ più malinconico del dovuto, ma questo concerto è un altro di quei momenti che resteranno nel cuore».
Per la cronaca: su ‘Heaven’ era sceso un mezzo diluvio, quasi un segno della presenza di Steve, ovunque egli sia. Ma non erano lacrime, piuttosto una benedizione.