L’imponente parata alla presenza degli alleati è un segnale militare, politico ed economico lanciato da un leader senza scadenza di un Paese in ascesa
Un’imponente parata militare per ribadire il peso crescente della Cina sulla scena internazionale, strappare all’Occidente la memoria storica e rafforzare il consenso interno. Circondato da 26 capi di Stato e di governo, ieri il presidente cinese Xi Jinping ha presieduto la più massiccia rassegna militare dal 2015: migliaia di soldati e le più moderne tecnologie belliche cinesi hanno sfilato in Piazza Tienanmen in un turbinio di palloncini colorati e bandiere rosse a cinque stelle. L’evento è stato organizzato in occasione delle celebrazioni per l’80esimo anniversario della vittoria nella Seconda guerra mondiale e della fine dell’occupazione giapponese; uno dei capitoli più bui della storia cinese. Il simbolismo della ricorrenza (a partire dall’abbigliamento alla Mao di Xi) è affilato quanto le armi.
Fiancheggiato a destra dal presidente russo Vladimir Putin e alla sinistra dal leader nordcoreano Kim Jong-un, Xi ha accolto uno stuolo di dignitari stranieri tutti o quasi provenienti dal cosiddetto Sud globale (fatta eccezione per il presidente serbo Aleksandar Vucic e slovacco Robert Fico); la coalizione di Paesi emergenti non occidentali che Pechino negli ultimi anni ha attirato a sé con la promessa di riformare l’attuale ordine mondiale plasmato da Stati Uniti ed Europa alla metà del secolo scorso. Un ordine mondiale che oggi non rappresenta adeguatamente i nuovi equilibri economici e demografici del pianeta. Un ordine mondiale che il disimpegno internazionale dell’America di Donald Trump sta lasciando alla mercé della Cina. E proprio all’inquilino della Casa Bianca si è rivolto Xi nel suo discorso, seppur senza fare nomi:“Il popolo cinese si è unito per sfidare il nemico... Oggi l’umanità deve nuovamente scegliere tra la pace e la guerra”. Il leader cinese ricordava l’invasione dell’impero nipponico, che solo nella città di Nanchino si stima abbia trucidato 300mila persone tra il dicembre 1937 e il gennaio 1938. Ma è al presente che si riferiva davvero Xi: la Cina è una grande nazione che “non si lascia mai intimidire da alcun bullo. Il passato ha dimostrato che il popolo cinese si unisce sempre per sfidare il nemico quando si trova ad affrontare le avversità”.
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Una balconata per tre
Con i mezzi a disposizione oggi è tutto molto più facile. Nonostante la perdurante raffica di epurazioni nel settore della difesa, lo sfoggio di muscoli di ieri lascia pochi dubbi sul progresso tecnologico dell’esercito popolare di liberazione (Pla). Dal nuovo missile nucleare strategico intercontinentale a propellente liquido DF-5C, capace di colpire qualsiasi punto della Terra, al vettore balistico DF-26D progettato per bersagliare le navi statunitensi nel Pacifico occidentale, fino al nuovo sistema d’arma antimissile HQ-29, considerato controparte del sistema Thaad statunitense: gran parte dell’arsenale esposto durante la parata (completamente prodotto in casa e già in uso) sembra mandare un chiaro messaggio a Washington, le cui incursioni nelle acque del mar Cinese meridionale contese tra Pechino e vicini asiatici irritano enormemente la leadership cinese.
D’altronde, già quarto esportatore di armi al mondo, la Cina non ha mai fatto mistero del suo obiettivo finale: rendere il Pla un “esercito di livello mondiale” entro il 2049, ovvero di pari forza a quello americano. E poi c’è Taiwan, l’isola che la Cina vuole (ri)annettere al proprio territorio con mezzi pacifici o con le armi, e che Washington considera tra i più importanti alleati nell’Asia-Pacifico. Dimostrazioni di sorvolo sopra piazza Tienanmen hanno coinvolto anche i bombardieri H6 a lungo raggio con capacità nucleare e i caccia J-16 e J-20, spesso dispiegati in missioni di disturbo nella zona di identificazione della difesa aerea di Taipei.
Per nulla intimorito, poco prima della parata, Trump ha dichiarato che l’America ha “le forze militari più potenti del mondo” e che i cinesi “non userebbero mai le loro forze militari contro di noi. Credetemi, sarebbe la cosa peggiore che potrebbero mai fare”. D’altro canto, almeno in questa fase, a Pechino sembra interessare soprattutto l’aspetto difensivo più che quello offensivo.
Giorni fa, in conferenza stampa, il viceministro degli Esteri Hong Lei ha spiegato che ”dopo aver sofferto a lungo per le aggressioni delle grandi potenze, il popolo cinese conosce il valore della pace”. La rassegna militare serve a “dimostrare la nostra ferma determinazione a seguire la via dello sviluppo pacifico, la nostra ferma volontà di salvaguardare la sovranità nazionale e l’integrità territoriale e la nostra solida capacità di sostenere la pace e la tranquillità nel mondo”.
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Soldati durante la parata
Sembra pura retorica ma non lo è. Xi lo ha promesso fin dall’inizio al popolo cinese che la priorità del suo mandato presidenziale (ormai sine die) sarebbe stata il raggiungimento del cosiddetto “Chinese Dream”: ovvero la “rinascita della grande nazione” dopo l’umiliazione subita tra l’800 e la prima metà del ’900 per mano degli imperialisti occidentali e nipponici.
Un riscatto che comporta la piena riappropriazione della propria sovranità; ergo l’annessione di Taiwan, che fu restituita dal Giappone dopo la fine della Seconda guerra mondiale nel 1945. Ma che la Cina comunista di Mao in realtà non ottenne mai e anzi si vide scippare dai nazionalisti fuggiti sull’isola una volta persa la guerra civile. Se la rivalsa sull’Occidente è la prima condizione per il ritorno alla grandeur di epoca imperiale, la riunificazione tra le due sponde dello Stretto è l’altro tassello mancante nel grande disegno del leader cinese.
In questa palingenesi da sconfitta a superpotenza, per la Repubblica popolare è quindi fondamentale riappropriarsi del giusto posto nella storia. Da giorni i media statali ricordano come durante il secondo conflitto mondiale “senza la continua resistenza della Cina” contro il Sol Levante, “gli Stati Uniti avrebbero avuto un problema molto più grande nella regione Asia-Pacifico”, mentre all’Unione Sovietica viene riconosciuto il merito di aver resistito contro la Germania nazista. Un precedente che – secondo Xi – giustifica “l’amicizia senza limiti” con Putin davanti ai “cambiamenti mai visti in un secolo”.
Ma c’è dell’altro. Per Pechino, la restituzione di Taiwan alla Cina continentale rappresenta un pilastro dell’ordine mondiale post-bellico, insieme alla sconfitta del Giappone. Chi mette in discussione l’unità della nazione, favorisce le forze secessioniste al di là dello Stretto, e non difende l’ordine postbellico centrato sull’Onu, mina l’intero sistema internazionale plasmato alle conferenze di Yalta e San Francisco. In altre parole, contestare la sovranità cinese sull’isola di Formosa equivale a sovvertire l’ordine mondiale. Accusa che l’Occidente muove costantemente contro la Cina.
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Un uomo solo al comando
Solo due giorni prima della parata, dal palco della 25esima plenaria dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, Xi Jinping ha lanciato la Global Governance Initiative. Un’iniziativa – basata sui cinque principi di uguaglianza sovrana, rispetto dello stato di diritto internazionale, multilateralismo, approccio incentrato sulle persone e adozione di azioni concrete – che ha l’obiettivo conclamato di ridurre le differenze tra Nord e Sud del mondo. “Ogni paese, indipendentemente dalle dimensioni, dalla forza o dalla ricchezza, dovrebbe partecipare, decidere e trarre beneficio dalla governance globale in egual misura”, ha dichiarato il presidente cinese bacchettando Stati Uniti ed Europa. Si tratta di un’operazione che punta a presentare la Repubblica popolare come un interlocutore responsabile, laddove Washington sta progressivamente abbandonando gli impegni internazionali presi negli ultimi decenni e il Vecchio Continente fatica a raggiungere la coesione che si confà a una potenza mondiale.
La strategia funziona piuttosto bene tra i Paesi emergenti, che nella seconda economia mondiale vedono un modello a cui aspirare. Altrove, tuttavia, la comparsa di Xi accanto a Putin e Kim Jong-un ricorda come la Cina abbia una concezione discutibile di diritto internazionale. Accusato di finanziare indirettamente il programma nucleare nordcoreano e l’invasione russa dell’Ucraina, alle nostre latitudini Pechino pecca di ipocrisia quando condanna l’“aggressione straniera”.
D’altra parte, il simbolismo non è importante solo oltre la Muraglia. Quello di ieri è stato il primo incontro tra i leader di Pechino, Mosca e Pyongyang dai tempi della guerra fredda. Un messaggio dissonante quello di Xi che vuole vendere al mondo la parata militare come un segno di pace.
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Un momento della parata
Vladimir Putin sostiene di vedere “una luce in fondo al tunnel”, afferma che “se prevarrà il buonsenso sarà possibile” porre fine alla guerra che lui stesso ha scatenato invadendo l’Ucraina. Ma poi dice che se non sarà raggiunto un accordo di pace, il suo esercito continuerà a combattere per “risolvere tutti i compiti militarmente”. Dichiara che, “se è pronto”, Volodymyr Zelensky “può venire a Mosca” per incontrarlo, e sostiene di non aver “mai escluso la possibilità” di un faccia a faccia di questo tipo col presidente ucraino. Ma allo stesso tempo si chiede se “questi incontri abbiano un senso” e la proposta di un vertice nella capitale russa – che Kiev ha subito bocciato definendola “inaccettabile” – non è esattamente un invito a discutere in una sede neutrale. Da Pechino, il presidente russo loda l’amministrazione Trump sostenendo che abbia “un sincero desiderio di trovare una soluzione” al conflitto, ma ripete che le truppe russe starebbero “avanzando in tutte le direzioni”.
Quella di Putin sembra una sfida a Zelensky, che da tempo si dice pronto a un incontro col presidente russo. “Putin continua a giocare con tutti avanzando proposte palesemente inaccettabili”, replica Kiev commentando l’ipotesi di un incontro a Mosca e sostenendo che le alternative non manchino: “Austria, Vaticano, Svizzera, Turchia e tre Paesi del Golfo” si sarebbero già detti disponibili a ospitare i colloqui, secondo il capo della diplomazia ucraina, Andrii Sybiha. Di certo, Putin non sembra avere intenzione di contrariare Trump: “Il presidente degli Stati Uniti non è privo di umorismo”, dice minimizzando sulle dichiarazioni in cui l’americano ha usato la parola “cospirare” riferendosi ai leader di Cina, Russia e Corea del Nord.
Finita la parata, Putin ha voluto mostrare al mondo i suoi rapporti sempre più stretti con Kim. L’incontro a Pechino – stando ai media russi – è durato due ore e mezza. Putin ha fatto salire Kim Jong-un sulla sua auto presidenziale proprio come aveva fatto lunedì col premier indiano Narendra Modi. Poi ha ringraziato il dittatore per aver inviato i suoi soldati a combattere contro quelli ucraini. E ha dato fiato alle trombe della sua propaganda sostenendo che Russia e Corea del Nord “lottino insieme contro il nazismo moderno”.