Pubblichiamo un estratto inedito da ‘L'era dell'acquario’ (Adelphi), il nuovo libro di Fabio Bacà, ospite di Babel domani, 14 settembre, al Teatro Sociale
di Fabio Bacà
Pubblichiamo un estratto inedito da ‘L’era dell’acquario’ (Adelphi)
È un dato di fatto che l’incipit sia universalmente considerato l’elemento più emblematico (molto spesso ingannevolmente emblematico) tra tutti gli elementi di un romanzo: più del titolo, al quale uno scrittore affida il compito altrettanto illusorio di sintetizzare e circoscrivere il significato della sua opera – con risultati talora incerti: penso solo a quanto sia parziale una scelta come American Psycho, anche se non nego la difficoltà di compendiare in un titolo le prerogative di feroce critica ai paradossi del capitalismo che affiora dalle pagine dello sconvolgente romanzo di Bret Easton Ellis – e di sicuro più del finale, elemento altrettanto iconico ma necessariamente esentato dal gioco delle analisi e dei giudizi pubblici in virtù delle sue caratteristiche di “segretezza”, l’incipit sembra aver assunto un ruolo fin troppo vistoso rispetto al suo effettivo rilievo nell’economia generale di una narrazione. A cosa serve un buon incipit? La risposta più immediata sarebbe: considerato che da qualche parte un autore dovrà pur cominciare, sarebbe sciocco da parte sua non cominciare bene – colossale banalità da cui discende l’ulteriore quesito: che significa bene?
Poiché confido, forse con eccessivo ottimismo, che quasi tutti i lettori abituali di romanzi abbiano letto almeno una ventina di classici, presumo altresì che sappiano che fino a qualche secolo fa – o anche solo fino a qualche decennio fa – era in uso un incipit lento, pigro, dilatato: Manzoni, Dostoevskij o Goethe sapevano benissimo di non dover competere con Instagram, serie tv, Playstation e tutti gli altri diabolici distrattori divora-tempo che ci ossessionano quotidianamente, e dunque potevano permettersi di concepire premesse ampie, ellittiche, persino non del tutto pertinenti: descrizioni di paesaggi, di contesti storici, delle prerogative fisiche e caratteriali del protagonista. Addirittura Victor Hugo, nel suo capolavoro I miserabili, debutta con una lunghissima prolusione su Charles Myriel, vescovo di Digne, e sulle voci che circolavano sulla sua nomina appena giunto alla Diocesi: incipit al quale l’autore antepone la paradossale precisazione, dopo appena due righe, che quanto sta per raccontare “non ha nessun collegamento con la sostanza della nostra storia”. Senza sconfinare nel Diciannovesimo secolo, l’esordio di Suttree, uno dei libri più belli di Cormac McCarthy, consta di quattro pagine in corsivo di descrizione lirica di strade, mura, binari ferroviari, un piccolo cimitero, il fiume, depositi, cave e altri scorci di mirabile squallore nei dintorni della città in cui vive l’eponimo protagonista: mi chiedo come avrebbe accolto un simile profluvio di magniloquenza l’editor di una grande casa editrice italiana negli ultimi quindici o vent’anni (mettendosi le mani tra i capelli, con buona probabilità). E sì, perché negli ultimi tempi le cose sono cambiate. L’evoluzione del gusto letterario, parallela alle progressive mutazioni del linguaggio televisivo e cinematografico e alla turbinosa ipercinesia dei contenuti dei social media, sembra imporre all’incipit l’obbligo di attirare subito il lettore nel vortice dell’azione, catturarlo, afferrarlo metaforicamente per il collo e convincerlo a non smettere di leggere. L’individuo che si aggira in libreria con le spalle curve e l’atteggiamento pensoso, colto nell’atto di compulsare libri a caso e lasciarsi ispirare da ciò che osserva, finirà per delegare buona parte della sua scelta al titolo, alla foto in copertina, all’eventuale fascetta, alla sinossi nell’aletta della seconda di copertina, alla breve biografia dell’autore e magari alle venti o trenta righe che leggerà: ed è molto probabile, per non dire certo, che sarà proprio all’incipit che affiderà il compito di essere definitivamente sedotto. A questo punto credo sia opportuno che io sottolinei di essere un evoluzionista convinto, un fervente eracliteo: in pratica, sono del tutto favorevole ai cambiamenti – pur senza rinnegare il passato – e di conseguenza propugno con forza che la scelta di un incipit dovrebbe essere dettata solo dall’ispirazione e dalla funzionalità dell’esordio rispetto alla vicenda narrata, non certo da considerazioni sull’eventuale aderenza del primo capoverso agli stilemi attualmente in voga.
Da romanziere, non concordo affatto con la presunta saggezza dell’adagio popolare secondo cui “chi ben comincia è a metà dell’opera”, e sottoscrivo ancor meno la scialba sentenza per la quale “il buongiorno si vede dal mattino”, persuaso come sono che nemmeno un dilettante attribuirebbe alle prime righe un valore maggiore di qualunque altro passo del suo lavoro: uno scrittore degno di questo nome profonde lo stesso impegno e la stessa cura nella stesura di ogni periodo – di ogni sintagma, di ogni parola, di ogni singola virgola – consapevole del fatto che un lettore preparato non sarà indulgente con un libro dotato di un incipit qualitativamente sublime ma per tutto il resto sprovvisto delle minime prerogative di decoro letterario. Delle 378 pagine che uno dei migliori testi di scrittura creativa sul mercato (‘L’officina della parola’, di Stefano Brugnolo e Giulio Mozzi) dedica all’arte della narrazione appena sette sono riservate all’incipit; i personaggi, per intenderci, sono analizzati per 23 pagine e i dialoghi addirittura per 30, prova ineludibile di come lo sguardo disincantato di un professionista della scrittura consideri poco significativo l’invalso feticismo per le prime righe di un romanzo. Ma allora a cosa si deve questa generica sopravvalutazione? La mia teoria è che la lunghissima crisi della narrativa, intesa come il progressivo disinteresse del pubblico per la fruizione di fiction e saggistica, abbia suggerito agli esperti di marketing editoriale di enfatizzare alcuni degli elementi più simbolici del romanzo nel tentativo di rinnovarne la mistica agli occhi di una collettività sempre più distratta. Una strategia che sta funzionando? A giudicare dagli ultimi dati sulla vendita di libri nel nostro Paese si direbbe proprio di no.
Ci toccherà inventarci qualcos’altro per rinfocolare la passione per la lettura.