Trent’anni fa il Lugano eliminò i nerazzurri dalla Coppa Uefa. Emblema di quell’exploit è una persona dalla storia familiare non certo banale
Cultura, sensibilità, occhi bene aperti sul mondo. È quel che risponderei se mi chiedessero di descrivere in breve Edo Carrasco, che incontro per fare una chiacchierata che prende spunto dal pallone, ma che poi per fortuna imbocca diverse altre direzioni. Una benedizione per chi, pur occupandosi di sport, apprezza parecchio quando un atleta sa – e vuole – parlare di vita vera. Per intenderci, ho incrociato calciatori – agli antipodi rispetto a Edo – che blaterano di tattica e parastinchi perfino ai funerali.
Il pretesto dell’intervista è il trentesimo anniversario dell’eliminazione dell’Inter in Coppa Uefa da parte del Lugano, probabilmente fra le pagine più gloriose della storia del club, di certo l’episodio più significativo della carriera dell’oggi cinquantatreenne ex centrocampista bianconero. «Sono passati trent’anni, ed è sempre più complicato parlare di quella doppia sfida, anche perché magari col tempo ci ho costruito anche qualcosa sopra. La cosa che ricordo con più piacere è il fatto che eravamo una squadra molto ‘local’, un aspetto oggi ormai scomparso, e non solo in Svizzera. C’era un grande senso di appartenenza. Oltre a me e a Gentizon – amico e collega ancora oggi – c’erano infatti Colombo, Manfreda, Esposito, Penzavalli, Morf, Walker, Fornera. Eravamo insomma una banda di ticinesi. E poi eravamo fortunatissimi ad avere accanto a noi un autentico fuoriclasse, Mauro Galvao, che sbarcò a Lugano dopo i Mondiali del ’90 – che aveva giocato da titolare con la maglia del Brasile –, proprio quando anch’io, diciottenne, arrivavo in prima squadra. Un fenomeno, come uomo e come giocatore: ci insegnava, con regole molto semplici, a vivere da atleti, oltre che a essere corretti in campo. Quella famosa stagione ’95-96 fu anche la chiusura di un bellissimo ciclo iniziato nel ’92 con la finale persa di Coppa Svizzera, proseguito con quella vinta l’anno seguente, con la sfida al Real Madrid nel ’94 in Coppa delle Coppe e col secondo posto in campionato».
E poi, appunto, buttaste fuori l’Inter, grazie a due gol tuoi: quello dell’1-1 all’andata, e quello dell’1-0 al ritorno a San Siro… «Mi tocca dirlo, quella nerazzurra era una squadra di presuntuosi che non aveva considerato che di fronte poteva avere dei buoni giocatori. Oltretutto, loro erano in una crisi profonda: nella prima gara erano allenati da Ottavio Bianchi, mentre nella seconda sulla loro panchina c’era il Pallone d’Oro Luisito Suarez. E poi, dopo che li eliminammo, ci fu un altro cambio e arrivò Roy Hodgson. Va anche detto che non era una grande Inter: a parte un paio di campioni veri come Javier Zanetti e Roberto Carlos – che segnò l’1-0 a Cornaredo –, schierava gente come Centofanti, Rambert, Festa e Carbone, che oggi non potrebbero certo giocare in Serie A».
Tutto ciò, come detto, avvenne nel mese di settembre… «È un mese davvero molto simbolico nella mia storia e in quella della mia famiglia: il colpo di Stato in Cile, Paese di cui sono originario, avvenne infatti l’11 settembre (del 1973, ndr), le due nostre partite contro l’Inter le giocammo il 12 e il 26 settembre, e mia figlia è nata proprio in quel mese. Da una parte, è un mese di sofferenza – perché il golpe ebbe conseguenze pesantissime su tutti noi – ma è anche un mese di riconciliazione. L’impresa contro l’Inter – simbolicamente – è stata un po’ anche un modo per riconciliarmi con la storia di mio padre e della sua carcerazione. Molto simbolici nella nostra famiglia sono del resto anche gli stadi: da uno stadio trasformato in centro di tortura – come avvenne a quel tempo in Cile – a uno stadio foriero di felicità, quello di San Siro, grazie a un mio gol importante. Una rete che non solo ha permesso a una piccola squadra di compiere una grande impresa, ma ha pure consentito a me di rappacificarmi almeno in parte con una vita che, per la mia famiglia, ha avuto momenti terribili».
Quei due gol furono determinanti per il tuo percorso di calciatore… «Senz’altro. Pensa che addirittura, subito dopo, la Federazione cilena mi contattò per chiedermi se fossi disposto a giocare in Nazionale. Il selezionatore era Nelson Acosta, che stava preparando la qualificazione ai Mondiali di Francia e avrebbe voluto darmi una chance. Poi però purtroppo lui perse il posto e non se ne fece nulla. Giocare nella Nazionale cilena da figlio di rifugiati politici sarebbe stato davvero il massimo, la vera ciliegina mancante sulla mia torta personale!».
E prendesti la strada per Losanna, dove giocasti ancora qualche stagione, per poi smettere piuttosto presto. Tu avevi una testa diversa, non concentrata soltanto sul calcio, o no? «Da ragazzino figlio di rifugiati politici, il calcio è stato per me un mezzo per crearmi un’identità, un riconoscimento. Avevo dunque un enorme desiderio di riuscire ad affermarmi in campo. Però, è vero, non ho trascurato lo studio, e infatti ho fatto il liceo. Ed è stato proprio in quegli anni che qualcosa è cambiato in me. Mi resi conto che, fuori dal contesto sportivo, c’era un mondo fatto di sofferenza, conflitti e persone che non potevano vivere dignitosamente. Cominciai a sentire la voglia di una giustizia sociale, che comunque già mi apparteneva per via della storia della mia famiglia. Finito il liceo decisi dunque di fare volontariato di vario genere per tre anni, grazie al quale capii davvero cosa avrei voluto fare nella vita. E così a Losanna, dov’ero andato per giocare e dove vinsi un’altra Coppa Svizzera, iniziai a studiare scienze sociali e maturai l’idea di lavorare sul terreno, al fronte. Ho cominciato coi tossicodipendenti, prima da volontario e poi come professionista. Era qualcosa che, fra l’altro, tendevo a nascondere quando mi trovavo nella sfera del calcio, un mondo che stenta a tollerare gli atleti impegnati anche in altri ambiti, o che in qualche modo si schierano. Specie in quegli anni, era un ambiente pieno di pregiudizi, sessista, in cui la fragilità umana non andava mostrata. Oggi è bello vedere un campione come Federer mostrare i suoi sentimenti liberamente, insieme a una certa fragilità. A quei tempi non sarebbe mai stato accettato. In me avvenne dunque una specie di scissione: il mondo del calcio era fasullo, pieno di contraddizioni, incapace di accettare voci e visioni fuori dal coro. I miei compagni non avevano voglia di prendere posizione ed erano super prudenti, tanto che – quando buttammo fuori l’Inter – nessuno aveva il coraggio di andare dai dirigenti a chiedere il premio che avevamo negoziato anche per le riserve, nemmeno i più esperti, e così alla fine a contrattare ci andai io. Sta di fatto che, a nemmeno 29 anni, quando giocavo nel Sion, sentii che ero arrivato a un limite, quindi smisi col pallone e mi dedicai a ciò che davvero mi interessava, cioè lavorare con le persone in difficoltà, specie i giovani. E lo faccio, con grande passione, ancora oggi (Edo è infatti direttore generale della Fondazione il Gabbiano, ndr).
Torniamo alle tue origini: nel 1973, a Santiago, Salvador Allende viene rovesciato e assassinato dal golpe ordito da Augusto Pinochet: a quel punto cosa succede? «Mio padre era molto giovane, era uno studente-lavoratore di 21 anni con pochi mezzi finanziari. Studiava economia e commercio. Non era un autentico leader politico, ma certo simpatizzava per Allende. E così, come quasi tutti gli studenti, fu arrestato e trasferito nei tristemente famosi stadi di calcio trasformati in centri di tortura e detenzione – come già accennato –, dai quali purtroppo alcuni non hanno più fatto ritorno. Pensare che un criminale come Pinochet non abbia mai fatto un solo giorno di carcere è una cosa che fatico ancora oggi ad accettare. In Cile, purtroppo, non è stato fatto molto affinché i crimini della dittatura venissero infine riconosciuti come tali. Ad ogni modo, mio padre fu liberato dopo circa sei mesi e, appena possibile, nel marzo del ’74 è venuto qui in Ticino, mentre io e mia madre l’abbiamo raggiunto qualche mese più tardi, in settembre. E così crebbi a Lamone in una zona che portava un nome di buon auspicio, il quartiere Speranza, dove – pur non avendo un padre appassionato di pallone – mi innamorai del calcio, sognando di diventare come Carlos Caszely, giocatore del Colo Colo che per anni ha rifiutato di stringere la mano ai pezzi grossi della dittatura».
Che rapporto hai mantenuto col Cile? «A livello culturale, ho letto ad esempio tutti i libri di Isabel Allende e di Luis Sepúlveda, ma anche molti altri autori sudamericani, come Coelho. Letture importanti, anche perché – come nel caso di Sepúlveda – parlavano di persone che, come noi, avevano vissuto l’esilio. E nell’adolescenza ho ascoltato molto gli Inti Illimani, che mi permettevano di sentirmi parte di un Paese che in realtà io non avevo conosciuto. Sono tornato in Cile la prima volta nel 1990, dopo che Pinochet non è stato più rieletto. Al tempo avevo 18 anni, e fin lì io ero apolide, perché il Cile – come figlio di fuoriusciti – non mi riconosceva la nazionalità, mentre in Svizzera avevo solo un documento da rifugiato. Il calcio mi ha poi permesso, devo riconoscerlo, di avere il passaporto svizzero più velocemente di altre persone nella mia stessa situazione. Il legame col Cile ad ogni modo è sempre stato molto forte, anche se non ci torno da moltissimi anni perché ho quattro figli e il viaggio è molto costoso. Io però sono forse legato a un Cile che col tempo probabilmente è cambiato. L’idea romantica di Allende e di un Paese sociale aperto sul mondo è qualcosa che purtroppo viene smentita dalla realtà dei fatti, come succede un po’ in tutta l’America latina. Oggi in Cile c’è un governo di sinistra guidato da un giovane politico che cerca di fare mille cose, ma purtroppo non ci riesce perché nel Paese è ancora ben presente la traccia della dittatura, tanto che nel parlamento ancora oggi ci sono vecchi senatori che appartenevano a quell’infausto apparato. Pinochet, chirurgicamente, riuscì a mettere in piedi un quadro legale e politico che gli permette, anche vent’anni dopo la morte, di essere in qualche modo ancora influente. Ad esempio, ha creato condizioni di lavoro privilegiatissime per alcune classi, fra cui ovviamente esercito e polizia, oltre che per i dipendenti delle imprese nazionalizzate. Tutta gente riconoscente che, per forza, continuerà a ricambiare il favore votando ogni volta sempre per la stessa parte politica. Storicamente, è un lascito che continua a condizionare pesantemente l’intero Paese. Il mio legame con la mia terra d’origine, ad ogni modo, sopravvive anche nel fatto che coi miei figli ho sempre parlato spagnolo, non ho voluto perdere questo senso di identità. E così il legame è ancora vivo anche in loro, tanto che mia figlia grande ha fatto il lavoro di maturità al liceo proprio sul golpe del ’73. I miei figli conoscono la mia storia, sanno da dove vengo e sanno che non rinnegherò mai la mia parte cilena».
E negli anni Settanta, che Ticino era quello che vi ha accolto? «Quando qualche anno fa morì Padre Rivoir – l’artefice dell’azione di accoglienza ticinese verso i profughi cileni – gli scrissi una lettera aperta qualche giorno dopo il suo decesso. Lo ringraziavo per il coraggio che ebbe nel prendere posizione nei nostri confronti. Ci fu nel cantone uno slancio di umanità davvero fantastico. Ho il limpido ricordo di una società accogliente: anche chi era schierato un po’ più a destra sapeva dimostrare un livello altissimo di umanità. Purtroppo, è un aspetto che negli ultimi anni è cambiato in modo radicale. Il senso di accoglienza che c’era in quegli anni ormai l’abbiamo perso, e parlo in prima persona plurale perché io ormai sono ticinese. Siamo condizionati da slogan che dipingono lo straniero come qualcosa di terribile quando in realtà non è assolutamente così. Gli anni del mio arrivo in Ticino sono stati bellissimi: del resto, le condizioni erano favorevoli, le fabbriche facilmente davano lavoro ai cileni: entrambe le parti avevano bisogno, e ne traevano reciproco vantaggio. Non voglio però idealizzare troppo: tanti piccoli episodi di razzismo li abbiamo pur vissuti. Ad esempio, quando rientravamo da Ponte Tresa dove andavamo a far la spesa, mio padre – la cui pelle era abbastanza scura – subiva spesso dei controlli piuttosto ‘muscolosi’, figli di un certo accanimento. Io, invece, il razzismo lo subivo soprattutto sui campi di calcio. Ed era terribile, perché in quel contesto non potevi reagire. Cileno di merda me lo sono sentito dire un sacco di volte, e qualcuno arrivava perfino a sputarmi addosso. Per fortuna, riuscivo a veicolare la rabbia che provavo in qualcosa di positivo, mi serviva cioè a giocare ancora meglio. Infatti, non ho mai preso un cartellino rosso: ne ricevetti uno solo, in Serie A, ma per un doppio ammonimento stupido. Per i miei genitori, non essendo cresciuti qui, è stato molto più complicato, e a volte hanno subito discriminazioni – anche pesanti – sul posto di lavoro. Pur avendo studiato, non sempre la loro formazione era riconosciuta, e così hanno anche dovuto svolgere lavori umili. Sono state per me tutte esperienze molto forti, ma senz’altro anche molto educative, perché impari ad arrangiarti e a sopravvivere».
Il fatto che la Nazionale svizzera sia composta per la maggior parte da atleti con un passato migratorio può dipendere dal fatto che certi gruppi etnici hanno meno chance di studiare e allora investono maggiormente su una possibile carriera sportiva rispetto a ragazzi svizzeri – magari pieni di talento – che però non vedono lo sport come un eventuale sbocco e privilegiano invece la formazione, magari universitaria?
«Credo che sia proprio così. Tanti miei compagni di squadra nelle giovanili erano bravi, ma economicamente stavano bene e dunque non avevano quel pizzico di fame in più che potevo invece avere io. E lo stesso credo sia successo a molti ragazzi della ex Jugoslavia, come Xhaka e Shaqiri, che non avevano paura di abbandonare qualcosa di sicuro e redditizio – dato che non ce l’avevano – per seguire invece la via dello sport, mostrando maggiore tenacia rispetto agli altri. Il desiderio di rivalsa personale e di riuscita – per qualcuno che non ha nulla – sprona quei ragazzi ancora oggi a cercare soluzioni alternative».