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Più vediamo, meno sentiamo

Nemmeno una goccia di sangue ne ‘I sette samurai’ di Kurosawa, ed è indimenticabile. Tutta la materialità della morte in ‘The Penguin’, e niente nel cuore

Davanti a tutti, Toshiro Mifune
(Keystone)
16 settembre 2025
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Ne ‘I Sette Samurai’, capolavoro di Akira Kurosawa del 1954, i personaggi muoiono semplicemente cadendo a terra. Nonostante ciò, le loro morti sono incredibilmente profonde e drammatiche. Ci si arriva con la scrittura, e con la recitazione, alla profondità e al dramma. Kurosawa teneva al realismo al punto da rifiutarsi di ricostruire il villaggio dei contadini all’interno di uno studio cinematografico, perché a suo dire la scenografia (che poi ha vinto l’Oscar) influiva sulla recitazione. Così scrupoloso sulle capanne di paglia e le risaie, eppure non si vede una goccia di sangue, la telecamera non indugia sui buchi lasciati dalle spade nei corpi. Evidentemente per Kurosawa non ce n’era bisogno.

Il film è nel sedicesimo secolo e racconta di un gruppo di samurai assoldati per difendere un villaggio. Sette samurai contro quaranta briganti. Il realismo per Kurosawa sta nella situazione descritta (appunto, storicamente esistita) e soprattutto nella psicologia dei contadini e dei samurai, nei loro rapporti e, infine, nel ritmo della narrazione. ‘I Sette Samurai’ è un film lungo e lento, la cui metà consiste nella descrizione di quel mondo contadino e nella costruzione della rete di rapporti. In attesa dell’arrivo dei briganti. Quando poi arrivano, perché arrivano, non è mica un film esistenzialista, i briganti li vediamo sempre in movimento, sono quasi senza faccia, indefiniti al di fuori della malvagità delle loro intenzioni. Le scene di battaglia sono estenuanti, ma le morti sono più intuite che altro. I briganti vengono più o meno colpiti da una spada e poco importa il punto di impatto, la forza del colpo o l’angolo con cui la lama dovrebbe tagliare la carne. A Kurosawa interessava più descrivere la fatica dei contadini e dei samurai nel respingere gli assalti dei briganti a cavallo, piuttosto che la morte in sé. Il male, ammesso che ragionasse in questi termini, non ha nessun fascino ne ‘I Sette Samurai’, né la violenza. A Kurosawa non sembrava interessare neanche la tristezza della morte, che passa solo attraverso le reazioni dei personaggi: loro sono tristi, la camera da presa no. Persino la morte di Kikuchiyo – il protagonista, se ce n’è uno, interpretato dalla star dell’epoca Toshiro Mifune – è resa con incredibile sobrietà. Lo vediamo cadere a faccia in giù e coprirsi di fango, poi sulla carne nuda delle sue cosce il fango è sciolto dalle gocce di pioggia. Pochi secondi appena, giusto il tempo di rendersi conto che Kikuchiyo non si muove più, ma è una scena indimenticabile.

Molestie

La sobrietà di Kurosawa è incredibile solo per l’occhio contemporaneo, abituato a tutt’altra idea di realismo. La sera stessa in cui ho finito la visione de ‘I Sette Samurai’ ho continuato la serie Tv ‘The Penguin’. La sequenza temporale è importante, altrimenti il paragone tra le due opere può sembrare quantomeno pretestuoso. Non avrebbe alcun senso paragonare una serie Tv contemporanea con Colin Farrell sepolto sotto un’ora e mezzo di makeup e un film giapponese vecchio di quasi cento anni. E però, qualcosa di significativo c’è nel modo diverso in cui la gente muore in ‘The Penguin’. Pur avendo più tempo per costruire i rapporti tra i personaggi e le ambientazioni di Gotham City, la cosa più importante in ‘The Penguin’ sembra essere proprio la materialità della morte. Il fatto, cioè, che il proiettile di Victor – un personaggio buono, persino innocente, nonostante faccia parte di un’associazione criminale che mira a controllare lo spaccio di droga a Gotham City – attraversi la vittima proprio sul lato destro della gola, dove passa la vena giugulare. Vediamo gli effetti di un simile danno, la morte è lenta, dolorosa, piena di rumori sgradevoli mentre la vittima annega nel suo stesso sangue.

Poco dopo è il Pinguino in persona a cospargere di benzina un ragazzo e ad accendere la fiamma mentre è abbracciato alla propria madre: anche in questo caso abbiamo il tempo di vedere i corpi bruciare, grazie a un effetto digitale non del tutto riuscito, e avvizzire come foglie nel caminetto. Sono scene brutali, tremende, che forse avrei preferito non vedere, ma che a parte il fastidio – lo shock che molte serie Tv cercano in fondo cos’è se non un tentativo di molestare lo spettatore? – non lasciano niente nel cuore e nella mente di chi guarda.

Adesso, possiamo chiederci perché siamo passati dalla cultura de ‘I Sette Samurai’, allusiva, simbolica, alla cultura letterale ed esagerata di ‘The Penguin’. Se sia colpa di chi oggi fa serie e film o piuttosto dello spettatore sempre più indifferente di fronte a tutto ciò che richiede interpretazione e sensibilità. Il punto però è un altro: più vediamo, più ci viene mostrato l’orrore, meno sentiamo. Vale per film e serie Tv tanto quanto per le notizie che scorriamo ogni giorno sui nostri feed social, tra un video di due gibboni che si abbracciano e le foto delle vacanze degli influencer.


Colin Farrell