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Una storia amara come l’esilio, dolce come l’amore per un popolo

Dopo due anni di odissea burocratica, i giovani saharawi Muna e Mahyub, coinvolti in un progetto di scambio col Cisa, sono in Ticino. E si raccontano

Muna e Mahyub
29 settembre 2025
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Nel cuore di una delle aree abitate più inospitali del pianeta, tra le sabbie roventi del deserto algerino, si trova un luogo che sfida ogni convenzione. È la Escuela de Formación Audiovisual Abidin Kaid Saleh (Efa/Aks), una scuola di cinema situata nei campi profughi saharawi di Tindouf. Si tratta non solo di un’istituzione educativa, ma di un faro da cui mettere in luce una storia troppo spesso relegata ai margini delle narrazioni. Quella di un popolo oppresso che dal 1975 vive in un territorio – il Sahara occidentale – occupato dal Regno del Marocco o in esilio nei campi rifugiati algerini dove in molti non hanno mai visto la propria terra d’origine: una regione ricca di risorse naturali come il fosfato e con una porzione di Oceano Atlantico tra le più pescose al mondo, che ha contribuito a decretarne la condanna iniziata mezzo secolo fa. La Commissione europea ha definito i saharawi in esilio “profughi dimenticati” per il protrarsi di una condizione di cui non si intravede un superamento. Per contribuire a diffondere e far conoscere la storia di questo popolo, dal Ticino è partito un progetto ambizioso, un ponte culturale che collega quella terra incastonata tra le dune e le vite di giovani cineasti e artisti con la nostra realtà, dove attualmente due di loro – Muna e Mahyub – si trovano ospiti per qualche mese.

Il Sahara occidentale e la lotta per l’identità

Riavvolgendo il nastro degli eventi – operazione utile per capire quanto sia straordinaria e per nulla scontata la loro presenza alle nostre latitudini – andiamo al 2019 quando ha inizio la collaborazione tra il Film festival diritti umani di Lugano (Ffdul) e diverse Ong svizzere da anni impegnate al fianco del popolo saharawi. Dopo qualche edizione all’avvocata Lucia Tramèr, tra le promotrici di questa iniziativa, viene un’intuizione: superare le finestre tematiche aperte di anno in anno nella programmazione del Festival sulla causa saharawi e creare un vero e proprio scambio culturale e formativo tra l’Escuela di Tindouf e il Conservatorio internazionale di scienze audiovisive di Locarno (il Cisa). L’obiettivo era semplice ma profondo: tentare di raccontare dalla prospettiva inedita degli studenti di cinema di due contesti così differenti, attraverso la creazione di un film-documentario, questo popolo che non ha mai smesso di lottare per la propria identità e che crede fortemente nell’importanza della trasmissione del sapere. Basti pensare che nei campi profughi algerini gestiti dalla Repubblica Araba Saharawi Democratica (il governo del Sahara occidentale in esilio) il livello di istruzione si posiziona al secondo posto tra quello di tutte le nazioni africane.

L’idea stessa di una scuola di cinema in un campo profughi, l’unica del genere di cui si abbia notizia – ci racconta Mahyub – «trae origine da un festival nel deserto della regione di Tindouf nato nel 2003 che attirava l’attenzione di tanti giovani. Gli organizzatori hanno capito l’importanza di dare continuità a quell’interesse e così nel 2009 è iniziata la costruzione della scuola, inaugurata nel 2011». Lo scopo primario era che i saharawi stessi potessero narrare la loro esperienza, senza affidarsi a voci esterne che, per quanto animate da buone intenzioni, non possono cogliere la profondità di un’esperienza vissuta quotidianamente. Mahyub, che fa parte della quinta generazione dei diplomati della scuola, incarna perfettamente questo spirito: «Spesso le persone che venivano da fuori cercavano di raccontare la storia del nostro popolo. Ma ci sono aspetti che solo un saharawi può conoscere profondamente e riuscire a trasmettere».

Un mese nella vita dei rifugiati

La prima tappa di questo scambio si concretizza a marzo 2023, quando tre studenti del Cisa accompagnati dall’insegnante Daniele Incalcaterra si recano a Tindouf col compito di realizzare un cortometraggio. L’esperienza si rivela immediatamente intensa. Non si è trattato solo di girare un film, ma di immergersi nella vita delle famiglie saharawi, di cucinare, fare la spesa al mercato e condividere i pasti insieme, oltre che il lavoro cinematografico sul campo. «Da noi non esistono alberghi – osserva Mahyub, che ha ospitato parte del gruppo –. La vera sfida e al tempo stesso il più grande arricchimento per i giovani provenienti dal Ticino credo sia stato sperimentare, anche se solo per un mese, la vita di un rifugiato, confrontandosi con un ambiente agli antipodi del loro». Questo stretto contatto umano e l’empatia scaturita hanno contribuito a dar vita a “Jaima”, un corto di 19 minuti presentato all’Ffdul, al Locarno Film Festival e al Festival international du film de Fribourg, dove si è aggiudicato un prestigioso premio.

Fra amarezza e amore

Attraverso il rito dei tre tè offerti, «uno amaro come la vita, uno dolce come l’amore, uno soave come la morte», in “Jaima” si dipana la storia di un popolo che vive una realtà molto difficile ma che non smette di provare un profondo amore per la propria patria. «Questo mezzo artistico ha una potenza enorme che permette di arrivare lontano, molto lontano, e renderci visibili», considera Muna. L’arte, insomma, come un veicolo per uscire dai confini, per far conoscere al mondo una storia che altrimenti rimarrebbe intrappolata in un lembo di terra circondato da un muro di oltre 2’700 chilometri e disseminato di mine – così si presenta il Sahara occidentale – o nei campi profughi.

Ma proprio il passo di uscire fisicamente dai confini, che dopo la visita degli studenti del Cisa avrebbe dovuto portare Muna e Mahyub in Ticino, si rivela una vera e propria odissea burocratica a dimostrazione «di quanto siamo differenti», evidenzia Mahyub riferendosi alla discriminazione sistematica verso la sua comunità. L’idea iniziale era di far partecipare i due giovani a dei corsi al Cisa per sei mesi ma, come spiega Tramèr, «le autorità svizzere hanno più volte negato loro il visto, adducendo prima la necessità che si iscrivessero al Conservatorio – ciò che avrebbe comportato un costo insostenibile – e poi un generico rischio che rimanessero in Svizzera anche quando abbiamo ridotto il soggiorno alla metà del tempo». L’avvocata però non si è arresa. Tramèr ha ingaggiato una tenace battaglia legale e, dopo vari ricorsi, la perseveranza ha dato i suoi frutti: il Tribunale federale ha riconosciuto gli errori commessi dalla Segreteria di Stato della migrazione (Sem) e le ha ordinato di rivedere la decisione. Poi, dopo l’ennesima richiesta di presentare documenti, motivazioni, attestati, garanzie, programmi minuziosi, finalmente lo scorso inizio agosto i due giovani sono approdati in Ticino. Per Muna l’arrivo in Svizzera è stato la realizzazione di «un sogno che pensavo di continuare a vedere solo in televisione o su TikTok».

Tornando alla situazione geopolitica, «il Marocco – denuncia Tramèr illustrando gli ultimi sviluppi – continua a cercare di annullare l’identità dei saharawi non solo militarmente ma anche culturalmente ed economicamente: recentemente, ad esempio, ha iniziato a investire massicciamente nel turismo sulle coste del Sahara occidentale, ovvero a fare business in un territorio riconosciuto a livello internazionale come illegalmente occupato». Aggiunge Mahyub che la strategia del Marocco «è quella di disperdere il popolo saharawi e, di conseguenza, sfilacciare la nostra cultura. Questo avviene tra gli altri modi portando i giovani a studiare nel nord del Marocco, indebolendo così il legame con la loro terra su cui non vengono trasmesse conoscenze».

In questo contesto, l’arte, il cinema e il teatro sono una significativa forma di resistenza culturale e un atto di affermazione. Mahyub, nonostante il contesto di vita precario, ha sempre creduto nella sua passione, anche se la sua famiglia gli diceva che col cinema non si mangia e che non è utile per la sopravvivenza. «L’arte è però spesso più efficace della politica nel trasmettere dei messaggi in quanto riesce a toccare delle corde dell’anima più profonde», interviene Muna. Le fa eco Mahyub, che ribadisce: «È importante che anche noi stessi facciamo cinema per il Sahara». Un’idea che ha preso forma anche attraverso il Solar Cinema, progetto che ha portato proiezioni all’aria aperta, in mezzo alle dune, avvicinando l’arte alla comunità locale.

I presupposti sono però tutt’altro che dati. Il problema principale per gli artisti saharawi, rende noto Mahyub, è la dipendenza dagli aiuti umanitari. «È difficile essere un artista se sei rifugiato», spiega. Le Ong forniscono l’essenziale per sopravvivere, ma non per «essere qualcosa in più», per realizzarsi. Ogni progetto artistico richiede sacrifici enormi. «Se non lavoro per girare un film la mia famiglia non mangia abbastanza e io nemmeno», afferma. Nonostante questo, i due giovani non smettono di sognare, come testimonia anche Muna, che nei campi è direttrice del teatro locale e che crede nella forza di comunicare dell’arte, in particolare dal vivo. «Col teatro si è di fronte al pubblico con la propria presenza, non ci sono tagli né ripetizioni possibili. È uno scambio potentissimo», dice la giovane che solo una volta, ad Algeri, ha portato tra le mura di una sala di teatro una propria rappresentazione. La messa in scena ha infatti sempre luogo all’aperto.

Il sogno di ricambiare il favore

Non si mangia dunque col cinema e il teatro laggiù, ma è grazie a essi che Muna e Mahyub possono essere in Ticino a parlarne, oltre che per merito di Lucia Tramèr. Ed è rivolto a lei che Mahyub esprime un desiderio che racchiude il senso della loro lotta: «Vorrei poter restituire il favore a Lucia per tutto quello che ha fatto, anche quando noi avevamo perso completamente le speranze, e ospitarla da noi, non più nei campi profughi, ma nel Sahara occidentale, quando finalmente saremo indipendenti. Per poterle finalmente dire ‘benvenuta nel nostro Paese’».

Il percorso di Muna e Mahyub in Ticino si protrarrà fino a inizio novembre. Ora, dopo aver partecipato al Locarno Film Festival e al Verzasca Foto Festival, stanno seguendo dei corsi al Cisa e a breve saranno al Film festival diritti umani di Lugano. Ma questo progetto – è l’auspicio di Tramèr – non si ferma qui: «L’intento è di farlo continuare, di trovare nuove collaborazioni, affinché questo vivaio di artisti possa costruire qualcosa grazie alle loro competenze, ai contatti e alla speranza che l’arte può generare». Per continuare a dimostrare che la cultura può essere non solo un’arma pacifica e potente, capace di superare barriere politiche, ma pure un mezzo attraverso il quale avvengono scambi culturali che aprono frontiere fisiche e mentali.