laR+ L’intervista

‘Questo orrore va fermato con qualunque mezzo pacifico’

A colloquio con l’autorevole storica della Shoah Anna Foa, che lancia un appello alla resistenza contro lo sterminio dei palestinesi

(Keystone)

Anna Foa, autorevole storica della Shoah e dell’ebraismo, voce indipendente e critica, autrice del recente libro ‘Il suicidio di Israele’, denuncia il genocidio in atto, punta il dito contro le associazioni di amicizia a Israele che spalleggiano il governo Netanyahu e lancia un appello alla resistenza contro lo sterminio, a favore dei palestinesi ma pure della parte “sana” della popolazione di Israele contraria all’occupazione e favorevole alla coesistenza.

Canada, Australia, Inghilterra, Francia e altri Paesi hanno compiuto il passo decisivo: riconoscono dunque lo Stato di Palestina. Il dubbio diffuso però è che non serva a nulla, se non a darsi una buona coscienza.

È una decisione che approvo e saluto. Certo sarà anche una cosa puramente simbolica, ma a volte i simboli sono molto importanti. Credo sia un’ottima cosa.

Però non avrà nessun effetto immediato.

Come detto è una cosa simbolica, ma è anche politica: chiaramente non ha effetti immediati di nessun tipo, però vuol dire che non siamo d’accordo, lo dice nella forma più forte e decisa e potrebbe essere seguita da sanzioni commerciali, speriamo anche in un blocco della fornitura di armi, perché non sono solo gli Stati Uniti che inviano armi...

Lei ha accennato alla questione delle sanzioni. Abbiamo visto che la Spagna in questo campo è molto attiva. Condivide posizioni come quella del premier Pedro Sánchez secondo il quale senza le sanzioni, compresi lo sport e la cultura, non si muoverà mai nulla?

Guardi, io a questo punto condivido tutto quello che di pacifico, di culturale, di civile possa essere fatto per fermare questo orrore. Siamo di fronte a un massacro senza nome, senza fine: deve essere fermato con qualunque mezzo a questo punto. Ero contraria al boicottaggio. Ma oggi, da marzo in poi, da quando è stata decretata la fame indotta a Gaza, dico che qualunque mezzo a questo punto è buono, purché sia un mezzo civile, e in fondo il boicottaggio non ammazza nessuno.

Si boicottano però anche gli oppositori e i pacifisti a volte. Danni collaterali?

Vero. Ma ho amici colpiti direttamente nelle loro università da boicottaggi che mi dicono che in fondo è un piccolo prezzo da pagare per fermare quello che sta succedendo. Ecco, questo è importante dirlo.

Qualche ragione di ottimismo?

Sì, a me sembra che lentamente qualcosa si stia muovendo anche nella comunità ebraica, nel mondo della diaspora: una parte, seppur piccola, sta cominciando a non essere più così prona nei confronti del governo israeliano, lo spero.

In una recente intervista proprio su queste pagine, Meron Rapoport, giornalista israeliano di Local Call e +972, voce autorevole molto critica, ha detto tra le tante cose che in Israele la spiritualità ebraica è morta, uccisa dal sionismo messianico, ma che sopravvive qui e là nella diaspora. Condivide?

Direi che è una visione un po’ ottimistica sulla diaspora, anche se pessimista su Israele dove gli do perfettamente ragione. In Europa e anche in parte negli Stati Uniti viviamo un periodo in cui il mondo comunitario ebraico, soprattutto in Italia ma anche altrove, si è decisamente schierato a favore di Netanyahu e della sua politica.

Però lei accennava precedentemente a qualche segnale positivo.

Sì, mi sembra comunque che negli ultimi tempi è quanto sta succedendo. Quanto capita da due anni è talmente fuori da ogni dimensione di razionalità, di possibilità, anche di storia, che probabilmente qualcosa succederà: sento delle voci molto schierate col governo Netanyahu, che progressivamente hanno crescenti esitazioni e dubbi.

Concretamente?

Per esempio c’è uno schieramento di ebrei tutto impegnato a parlare solo di antisemitismo e mai a parlare di quello che sta veramente succedendo a Gaza e in Cisgiordania. Ma aggiungo anche in Israele, perché Israele ha perso la propria anima. La mia impressione è che questo atteggiamento si stia vieppiù sciogliendo, è tardi vero, ma comunque è sempre meglio avere una consapevolezza che si risveglia tardi piuttosto che una chiusura totale.

Lei ha scritto un libro dal titolo molto esplicito: ‘Il suicidio di Israele’. Dal punto di vista militare Israele sembra piuttosto trionfante. Quando parla di suicidio si riferisce all’anima del Paese?

Certamente riguarda anche questo aspetto, ma non solo. In pericolo sono anche la sua democrazia, la sua organizzazione sociale, la sua società, il suo mondo. Succedono cose che un Paese democratico non può accettare. Pensi all’arresto alle porte di Gaza del direttore d’orchestra che aveva interrotto il suo concerto, non ricordo dove, se in Inghilterra o altrove, per denunciare la situazione a Gaza. Ad arrestarlo è stato l’esercito israeliano. Sono fatti estranei a qualunque contesto democratico. La polizia del terrorista Ben Gvir, il ministro degli Interni, sta agendo sistematicamente in questa direzione: direi che Israele ha perso la sua democrazia, ammesso che l’abbia mai avuta completamente. Ma c’è anche qualcosa d’altro che attende Israele in prospettiva. Anche se in futuro i Paesi arabi dovessero accettare lo stato delle cose in Palestina, cosa succederà con la loro opinione pubblica, con la loro popolazione? Non dimentichiamo che Israele è comunque un Paese accerchiato: ammesso che il governo Netanyahu riesca a vincere su tutti i fronti, cosa di cui non sono così sicura, cosa succederà nei prossimi 10, 15 anni?

Il nostro ministro degli Esteri, Ignazio Cassis, contestato per le sue posizioni considerate blande nei confronti di quanto sta succedendo, interrogato sul fatto che la Svizzera non stia facendo un granché risponde che in realtà non può fare niente e che tutto è nelle mani del presidente americano Trump. Lei cosa pensa di questa affermazione?

Di fatto è vero che gli Stati Uniti in questo momento rappresentano il maggior sostegno a Israele e che senza l’appoggio degli Stati Uniti così totale tutto questo non sarebbe successo. Noi parliamo di guerra ma in realtà non è nemmeno giusto chiamarla guerra, è un massacro di civili da parte di un esercito super armato. Resta il fatto che delle decisioni politiche si possono comunque prendere, per esempio si possono bloccare degli accordi commerciali o degli accordi culturali.

Meron Rapoport sostiene che non vi sia più compassione in Israele. Eppure c’era. Ma cosa è successo? Da quando? Dove è finita la pietà?

È finita con l’uccisione di Rabin, forse, se proprio vogliamo trovare una data simbolica. Io ricordo bene quei momenti in cui ci dicevamo “è finito tutto”. È finito con la salita al potere di uomini come Netanyahu e poi con l’avvento di un governo che è semplicemente un governo di terroristi.

Questa è la sua definizione?

Sì, i terroristi sono al governo.

E che dire della popolazione israeliana?

Gli israeliani sono cambiati molto in una generazione e si sono abituati per molto tempo a considerare il problema dell’occupazione come una questione che in qualche modo non li riguardasse più. Invece era l’elefante nella stanza e lo abbiamo visto, ahimè, col 7 ottobre che è stato un altro segnale mandato dal fronte opposto, quello di Hamas contrario a qualunque costruzione di uno Stato palestinese.

In che senso?

Sono assolutamente convinta che tutto quello che è stato fatto da Hamas mirava a ostacolare la pacificazione: Hamas e Netanyahu, due opposti estremismi che hanno contribuito, implicitamente, senza accordarsi, a provocare quanto sta succedendo.

Volevo chiederle di esprimere qualche parola sulla resistenza a Netanyahu all’interno di Israele. Rapoport sostiene che esista ma che rappresenti un’esigua minoranza.

Quanto dice Rapoport è vero, però questa minoranza si riversa nelle strade. Ci sono ragazzi che vanno a fare scudo dei loro corpi di ebrei ai palestinesi in Cisgiordania contro i coloni dicendo: “Sono qui io e mi chiamo tal dei tali e voi non potete attaccare”. Ci sono momenti di grande eroismo, di grande coraggio. Cerchiamo di dar loro un po’ di fiducia.

Però le associazioni di amicizia, quelle ufficiali tra Paesi europei e Israele, per esempio qui in Svizzera, tendono piuttosto a schierarsi con il governo che lei ha definito terrorista. Più che amicizia con Israele sembrano manifestare amicizia a Netanyahu.

È vero, quelle sono assolutamente associazioni di amicizia con il governo israeliano. Le varie associazioni di amicizia con Israele sono apertamente filo-governative, anti-coesistenza, difendono la linea di Israele dopo la fine degli anni 90 che ha portato a questo disastro.

Stiamo vivendo purtroppo un periodo storico in cui la forza sta prendendo il sopravvento sul diritto e sui valori. Secondo lei è l’effetto di un Trump che ha sdoganato questo modo di cestinare la diplomazia, lasciando campo libero alla forza?

Certamente gli ha dato un bel impulso, però la crisi delle istituzioni internazionali, del diritto internazionale lo precede, è legato anche a Putin e all’aggressione all’Ucraina. Israele comunque non ha mai voluto riconoscere il diritto internazionale: non rispetta le varie risoluzioni dell’Onu sulla restituzione dei territori occupati e ha dato una fortissima spinta alla distruzione di quella che è stata la maggiore costruzione culturale, politica, militare, giuridica, per denunciare i colpevoli di alcuni atti come il genocidio o i crimini contro l’umanità.

Ormai il termine di genocidio è riconosciuto dagli studiosi più autorevoli, da Amnesty e Msf, e ora dalle Nazioni Unite. Secondo lei è corretto?

Sì, ne sono convinta. Non lo ero inizialmente. Da un punto di vista strettamente giuridico possiamo lasciare la parola a chi è delegato a esprimerla, cioè ai tribunali internazionali, ma dal punto di vista politico è una parola che si adatta a quanto succede. Tra l’altro viene da Israele, perché se lei guarda le immagini dei video che provengono dalle manifestazioni di protesta, ci sono sempre slogan e scritte “Stop Genocide”.

Sabato prossimo ci saranno in Svizzera diverse manifestazioni pacifiche, parteciperanno anche diversi rappresentanti della comunità ebraica che si oppongono al genocidio. Migliaia di persone che si sentono un po’ abbandonate dal loro governo. Lei che messaggio si sente di trasmettere alla folla frustrata dall’impotenza in cui si trova angosciata e confinata?

Se io fossi lì in quella manifestazione vorrei dire questo: continuate a fare quello che state facendo, c’è ovunque necessità di continuare a lottare, di sostenere la pace e di porre fine alla distruzione e al massacro. Continuate per i palestinesi assassinati, per i palestinesi fatti morire di fame, per i contadini della Cisgiordania aggrediti dall’esercito dei coloni, ma continuate anche per Israele, continuate anche per i suoi cittadini che cercano di fare di tutto per opporsi a Netanyahu. Continuate a farlo perché loro hanno bisogno di sentirsi sostenuti.