Quartiere San Giovanni di Bellinzona: il capodicastero Mattia Lepori spiega perché il Municipio ha ricorso al Tram contro il nuovo concetto di protezione
Concepito verso fine ’800 per accogliere dal profilo residenziale l’avvento della ferrovia nella capitale del Ticino in pieno sviluppo, il quartiere San Giovanni è finito ora sul tavolo del Tribunale amministrativo cantonale. Nei giorni scorsi il Municipio, come indicato di recente, ha infatti impugnato con un ricorso la decisione governativa, anticipata dal nostro giornale il 2 maggio, di sottoporlo nella sua integrità al vincolo di protezione cantonale, andando ben oltre a quanto prevedono sin dagli anni 90 il Piano regolatore cittadino e le sue norme di attuazione. Preannunciata dal Dipartimento del territorio nel 2017 quando andava a concretizzarsi il nuovo ‘cantiere’ della tutela comunale di circa ulteriori 170 edifici e oggetti di pregio disseminati in città, operazione questa avallata di recente dal governo stesso, la protezione cantonale del quartiere non trova d’accordo il Municipio perché ritenuta troppo severa e poco attenta alle odierne esigenze residenziali. Finirebbe insomma per mettere l’intero quartiere, formato da una quarantina di stabili, sotto una campana di vetro impermeabile dove tutto o quasi deve rimanere immutato nel tempo. A vigilare sarebbe peraltro il Cantone stresso e non più soltanto i servizi comunali. Ne parliamo col municipale Mattia Lepori, capodicastero Territorio e mobilità.
Il Municipio cosa contesta della decisione governativa? In soldoni, cosa andrebbe cancellato e cosa si potrebbe salvare?
Premetto innanzitutto che il Municipio accoglie favorevolmente l’approvazione della tutela dei nuovi beni culturali, tra i quali anche quella del quartiere San Giovanni. Si riconosce infatti l’importanza di protezione del quartiere nel suo insieme, soprattutto per quanto concerne la razionalità del suo impianto urbanistico e la qualità degli elementi architettonici che lo compongono. Ciò che non si condivide è l’approccio eccessivamente restrittivo che non tiene sufficientemente conto delle particolarità dei singoli edifici, delle nuove esigenze di comfort e di quelle tecniche. Per gli edifici ora vengono di fatto ammessi unicamente degli interventi di tipo conservativo, limitando pertanto quelli che sarebbero utili o necessari. Ciò che si chiede è che, a seconda degli interventi proposti, possano essere tenute in considerazione dall’autorità cantonale le particolarità e le differenze tra i singoli edifici, permettendo, se sufficientemente giustificati, anche interventi migliorativi che vadano oltre la conservazione e il restauro.
La protezione del quartiere nel suo complesso come andrebbe dunque semmai intesa nell’ottica di una valorizzazione non solo puntuale, ma anche generale?
Secondo il Municipio la protezione deve puntare a valorizzare il quartiere nel suo insieme, mantenendone le qualità urbanistiche e spaziali, senza però bloccare ogni possibilità di miglioramento. La norma decisa dal Consiglio di Stato, invece, arriva al punto di imporre – per fare un esempio concreto – il ripristino dei vecchi citofoni originali. Questo tipo di prescrizione non è solo sproporzionata, ma rischia di ottenere l’effetto contrario: scoraggiare i privati dal prendersi cura degli edifici o dall’investire in ristrutturazioni che li rendano più belli, sicuri e sostenibili.
Non si sente il Municipio un po’ responsabile di quanto accaduto, visto che nella propria decisione il Consiglio di Stato scrive ed evidenzia che “il Comune non ha dato seguito all’invito formulato dal Dt di procedere con l’introduzione nel Pr di una specifica regolamentazione edilizia”? Perché non diede seguito?
Il Municipio, non reputando necessario introdurre regole così dettagliate, non ha giustamente modificato le proprie norme di attuazione del Piano regolatore (Napr). Si condivideva invece la tutela cantonale in termini generali e, trattandosi di una competenza cantonale, il Comune non ha evidentemente formulato una proposta di revisione delle Napr. Il problema è che le nuove regole del Cantone verrebbero applicate in blocco a tutti gli edifici del quartiere, senza distinguere tra casi diversi. Soltanto quattro edifici recenti sarebbero esclusi.
In effetti il Cantone nel 2023 ha poi colmato il vuoto allestendo ‘motu proprio’ il Piano degli interventi e le relative prescrizioni normative da introdurre nelle Napr. Prima della sua entrata in vigore, il Cantone vi ha forse sottoposto la documentazione per consultazione? Se no, non era il caso di richiederla? O in caso affermativo, cosa avete risposto?
La norma è stata posta in consultazione nel 2023 e il Municipio, così come numerosi proprietari, ha formulato le proprie osservazioni che non sono state però considerate. In particolare, veniva richiesto di definire delle regole meno perentorie che tenessero in considerazione le particolarità e le differenze tra i singoli edifici considerando debitamente le esigenze odierne degli immobili residenziali del comparto. Come detto, l’obiettivo è di permettere, se sufficientemente giustificati, anche degli interventi edilizi che vanno oltre alla mera conservazione e restauro degli edifici. Ad esempio, riteniamo ingiustificato il divieto assoluto per la posa di impianti solari ben integrati, l’obbligo nelle riattazioni di utilizzare solo i materiali originari meno duraturi e costosi, la mancanza di una ponderazione degli interessi, la perdita dei potenziali edificatori residui ecc. Si tratta di condizioni troppo severe e complesse per i proprietari di case, che vengono così disincentivati dall’investimento.
Avete forse ricevuto delle prese di posizione di singoli proprietari? Cosa dicono?
Ben diciotto proprietari hanno formulato osservazioni molto simili a quelle del Municipio auspicando a loro volta delle regole meno restrittive e perentorie.
Proprietari disincentivati? A quanto pare, però, nelle vecchie Napr attualmente ancora in vigore gli stessi proprietari sembrano aver avuto gioco fin troppo facile. Lo sostiene l’ex pianificatore Claudio Pellegrini: da noi intervistato il 14 maggio, ha detto che «purtroppo non tutti i progetti sono stati elaborati in modo intelligente tenendo conto delle Napr e considerando le possibili eccezioni. Inoltre la politica e l’apparato preposto a valutare le domande di costruzione non hanno saputo interpretare correttamente le stesse norme di applicazione». Ancora una volta, l’autorità cittadina non si sente responsabile?
Gli edifici del quartiere sono in gran parte delle case di famiglia, alle quali i proprietari dedicano grande cura e attenzione. Riteniamo che, spesso con notevoli sforzi, gli interventi effettuati abbiano permesso di conservare le peculiarità del comparto, le cui caratteristiche originali risultano ancora oggi ben presenti e riconoscibili. Il concetto di villa con giardino, delimitata da muretti e ringhiere, inserita in un tessuto urbano ordinato con strade ortogonali, rappresenta un tratto distintivo della borghesia cittadina dei primi anni del Novecento. È vero che, nel corso degli anni, alcuni interventi hanno richiesto scelte delicate tra esigenze funzionali e tutela del patrimonio storico. Ciononostante, l’identità e l’atmosfera distintiva del quartiere sono rimasti intatti. Oggi l’attenzione verso il valore storico e ambientale del quartiere è certamente maggiore. A seconda dei progetti, si cerca un dialogo costruttivo che tenga conto sia delle esigenze di tutela sia delle legittime richieste dei proprietari. Anche le soluzioni condivise tra residenti, come auspicato anche dall’architetto Pellegrini, sono senz’altro benvenute quando mirano a valorizzare l’identità del quartiere. I problemi emergono quando le soluzioni si basano su imposizioni e divieti rigidi. Come Municipio, riteniamo importante evitare che ciò accada, promuovendo invece un approccio collaborativo e rispettoso delle diverse esigenze.
È sentimento diffuso fra i proprietari degli immobili che il vincolo di tutela sia in realtà una palla al piede, a tal punto da limitare eccessivamente la libertà d’azione, fino a disincentivare interventi anche urgenti. Si tiene conto di questo fattore?
Il rischio concreto è proprio quello di disincentivare il mantenimento degli edifici che necessiterebbero di interventi di riattazione per rispondere a nuove esigenze di comfort, ma anche di sensibilità energetiche e ambientali a cui giustamente siamo ormai abituati. I contributi pubblici per il finanziamento degli interventi conservativi coprono infatti soltanto una parte dei maggiori costi che il proprietario dovrà assumersi, rinunciando a ogni possibilità di ampliamento anche nei casi in cui la sostanza originale fosse adeguatamente valorizzata. Il rischio è quindi che il vincolo anziché proteggere, porti al degrado per abbandono.
A quanto ammonta, percentualmente, il sussidio pubblico di un intervento conservativo eseguito nel pieno rispetto dei vincoli di protezione?
Il finanziamento cantonale e comunale è regolato dalla Legge sulla protezione dei beni culturali (Lbc) e può ammontare al massimo al 50% della spesa riconosciuta. Esso dipende dall’importanza culturale del bene, dall’incidenza economica della misura di protezione o di eventuali condizioni e oneri, dalla situazione economica del proprietario, dai vantaggi conseguibili dal proprietario a seguito dei lavori, dallo stato di conservazione e di manutenzione del bene.
Non è forse un po’ esiguo?
Il principio è che il finanziamento dev’essere commisurato all’interesse pubblico relativo al vincolo di tutela. Proprio per questo motivo una regolamentazione generalizzata particolarmente restrittiva comporta a nostro modo di vedere un onere eccessivamente gravoso per i proprietari. Ciò a fronte di benefici che potrebbero essere percepiti dalla popolazione come non proporzionali. Anche sotto questo punto di vista la nuova norma così dettagliata per il quartiere San Giovanni non è condivisa.