Delineati nella prima giornata di processo i contorni dell'assassinio del custode del Centro scolastico dei Ronchini di Aurigeno, ucciso 2 anni fa
Un lungo e paziente appostamento. Poi l’agguato, improvviso, con un inseguimento fino ai margini dell’edificio scolastico e anche dentro. E l’esplosione di tre colpi di pistola, tutti alla schiena. Per finire un poco per volta il rivale in amore. E lasciarlo lì a morire, dissanguato, in un corridoio vicino alla palestra. Sembrava di tornare all’11 maggio 2023, oggi nell’aula del Tribunale penale di Lugano che ospita il processo a carico dell’uomo che uccise il custode del Centro scolastico dei Ronchini di Aurigeno. La colpa di quest’ultimo: avere una relazione con l’ex moglie dell’assassino; ma anche, a dire di questi, un lungo periodo (11 mesi) di angherie, provocazioni, sberleffi, tentativi di inquinare i rapporti fra la donna e il marito, ma anche quelli fra questi e i figli, diventati loro malgrado – la figlia più piccola in particolare – oggetti alla mercé dei rancori di adulti.
Niente, ovviamente, può giustificare un’esecuzione come quella perpetrata dal 44enne imputato di origini siciliane. Ma per interpretare il gesto è necessario indagare il movente. Quello dell’assassino stava nell’ossessione per una relazione terminata, e nell’incapacità di accettare che al suo posto, già mentre la prima era ancora in corso, ne era nata un’altra.
Eppure, nella prima giornata di un dibattimento che dovrebbe durarne altre quattro, poco di quanto scritto nell’atto d’accusa è stato confermato dall’imputato specialmente riguardo alle reali intenzioni nei confronti della vittima; sembra un dettaglio, ma in un processo per assassinio la premeditazione e le modalità utilizzate sono elementi essenziali per configurare il reato e, di conseguenza, stabilire l’entità della pena.
L’imputato principale, benché incalzato dal presidente della Corte Amos Pagnamenta, ha continuato ad affermare che sì, con il rivale esisteva un’avversione profonda, una rabbia continuamente alimentata da un confronto praticamente quotidiano fatto di reciproci messaggi e provocazioni; ma, ha giurato il 44enne, mai vi sarebbe stata la volontà di ucciderlo. Al massimo, ha detto e ripetuto, spaventarlo. Dapprima facendogli vedere la pistola, poi magari anche sparandogli, ma al massimo alle gambe e non “al bersaglio grosso”.
Prima ancora di presentarsi armato ad Aurigeno, peraltro, l’imputato aveva pesantemente minacciato il nuovo compagno della moglie. Scrivendo, appunto, messaggi altamente minatori in cui preannunciava azioni definitive; ma anche allestendo delle bombe Molotov e facendole trovare al custode poco lontano dalla sua abitazione. Tutto ciò, al termine di un primo tentativo che l’omicida avrebbe fatto di ripartire da zero dopo la relazione terminata con la moglie; «ma non era possibile – ha detto – perché ogni giorno c’era una discussione, sia con mia moglie, sia con il suo compagno. Che non perdeva occasione per fomentare la mia rabbia. Quando mi vedeva in giro faceva il segno del cornuto».
Giustamente, il giudice ha cercato di capire come sia stato possibile all’imputato non considerare la già drammatica situazione dei figli del custode, che ancora piccoli già avevano perso la mamma, uccisa a 29 anni, nel ’21, ad Emmenbrücke, da un 35enne poi perseguito dalla giustizia confederata. «In quel periodo non ero più io – ha risposto il 44enne riferendosi ai mesi di reciproche angherie –. Sono finito in un vortice». Eppure, stando alla perizia psichiatrica cui ha fatto riferimento Pagnamenta, non v’era al momento dell’assassinio una scemata capacità di discernere e capire l’entità dell’azione; questo, nonostante sia un disturbo della personalità misto con tratti paranoidi, sia un abituale e massiccio consumo di alcool e droghe leggere.
Altri motivi per indispettirsi il giudice li ha trovati confrontandosi con gli altri due imputati: la ex collega di lavoro dello sparatore, che secondo l’atto d’accusa del pp Ruggeri fece da raccordo fra lui e l’uomo che gli fornì la Glock utilizzata per l’assassinio; e lo stesso fornitore della pistola, un 34enne imprenditore di origini balcaniche che all’interno di questo stesso processo deve rispondere anche di fatti, particolarmente gravi, riguardanti l’inchiesta sui cosiddetti “permessi facili”.
Rimanendo all’assassinio dei Ronchini, entrambi (lui e la donna) hanno negato di aver agito nella piena consapevolezza che dare un’arma al 44enne, nelle sue condizioni di prostrazione, significava metterlo nelle condizioni di uccidere un uomo. La 34enne ha smentito diverse sue precedenti versioni e cercato di relativizzare il suo coinvolgimento: «Sì, sapevo che il mio datore di lavoro era in crisi con la moglie, che in lui covavano grande rabbia, tristezza e desiderio di vendetta; e sì, mi aveva chiesto se conoscessi qualcuno che potesse procurargli una pistola. Ma io non l’ho mai preso sul serio e l’incontro con l’uomo che poi in effetti gliela consegnò avvenne casualmente, in un bar che anch’io frequento abitualmente, senza la mia intermediazione». Egualmente evasivo il 33enne, secondo il quale la pistola fu acquistata dalla 34enne e non dall’assassino. «La prima volta che ci parlavamo già stava raccontandomi tutto della sua vita privata. Per questo ho pensato che era fuori di testa. Ma non ho mai pensato che la pistola servisse a lui».
Come detto, oltre alla complicità in assassinio questo stesso imputato deve rispondere in aula di corruzione di pubblici ufficiali svizzeri, corruzione attiva (ripetuta), falsità in certificati, inganno nei confronti delle autorità (aggravato) e incitazione all’entrata, alla partenza o al soggiorno illegali (aggravata), in parte tentata (ripetuta). Questo, per ciò di cui la stampa ticinese aveva scritto per mesi e che il giudice Pagnamenta è riuscito a riassumere in poche parole: «Lei, con la complicità di due persone dell’Ufficio stranieri, ha aiutato una decina di kosovari ad ottenere dei permessi di soggiorno in Svizzera procurando loro contratti fittizi tramite la sua ditta. Ammette i fatti?». Affermativa e lapidaria la conferma del diretto interessato, che ha aggiunto di averci guadagnato in totale «non più di 2’000-2’500 franchi».
Domani prenderanno la parola le parti, a cominciare dai procuratori Pablo Fäh (titolare dell’inchiesta sui permessi facili) e Roberto Ruggeri (per il caso di Aurigeno), che saranno seguiti dagli avvocati Giorgia Maffei (che tutela i figli della vittima), Fabio Bacchetta Cattori (legale del 44enne omicida), Gianluigi Della Santa (che segue il 33enne) e Matteo Poretti (per la 34enne). Unitamente a Pagnamenta, della Corte fanno parte i giudici a latere Renata Loss Campana e Giovanna Canepa Meuli, nonché gli assessori giurati.