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Cultura alternativa: da oltre 50 anni a cercare di farsi spazio

Abbiamo fatto quattro chiacchiere con le persone che hanno vissuto e che vivono la controcultura luganese, risalendo alla nascita dell’autogestione

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(Ti-Press)

A Lugano, oltre alla piazza finanziaria e alle vie dello shopping griffate, c’è di più. In Città vi è un fitto sottobosco di realtà indipendenti, staccate dall’ecosistema culturale considerato ‘alto’, generalista e istituzionalizzato. Ma non solo. Rispolverando gli annuali, si scopre che proprio a Lugano si formano i primi movimenti giovanili affamati di spazi autogestiti.

Fra i luoghi ‘non omologati’ più noti troviamo lo ‘Spazio Morel’, la cui avventura culturale però è giunta al capolinea. Nei primi giorni del 2025 il Tribunale federale ha infatti respinto i ricorsi contro l’abbattimento dell’ex Garage vicino al LAC. Al suo posto sorgerà una struttura residenziale. Il lascito del Morel pone diversi interrogativi riguardo al futuro della cultura alternativa a Lugano, considerando poi che vi sono diverse realtà che cercano di trovare il proprio spazio all’interno della città.

‘Autogestione, una storia lunga cinquant’anni’

C’è chi la Storia dell’autogestione – e della ricerca di luoghi dove fare germogliare la cultura dal basso – non solo l’ha studiata ma l’ha pure scritta di proprio pugno, nel suo piccolo. È il caso dello storico Danilo Baratti. «Fino all’occupazione dei Molini Bernasconi – spiega Baratti –, nel 1996, non esistevano spazi autogestiti. Ma la necessità, la richiesta e la lotta per ottenerli, risale agli anni 70, periodo di grandi contestazioni e di fermento, soprattutto giovanile. A Lugano nel ’71 ci fu un primo episodio; una raccolta di firme per la richiesta di un centro autonomo giovanile dove poter organizzare riunioni, feste, proiezioni cinematografiche, proposte teatrali. In realtà non si ragionava sul contenuto quanto sul contenitore perché… mancava del tutto. Il Municipio però non si mosse e intorno a quest’iniziativa si formò un gruppo che in seguito realizzò anche un giornalino incentrato sul tema».

«A Lugano si possono individuare due momenti segnanti – prosegue –, entrambi del 1973. Il primo avvenne in aprile con la chiusura del centro giovanile che si trovava dove oggi c’è il quartiere Maghetti. Era gestito da un’associazione cattolica che sì, offriva degli spazi ma controllati. Vigeva un regolamento rigido, che i giovani partecipanti volevano cambiare. Ma come risposta il centro fu chiuso. E così nacque una grande manifestazione, con parecchie centinaia di persone, di protesta. Se ne parlò molto perché un gruppetto di partecipanti ruppe alcune vetrate del Corriere del Ticino. L’occupazione fu il secondo episodio importante. Venne fatta in ottobre, nell’ex albergo-ristorante Venezia, dove ora c’è il ristorante Manor. Fu un’occupazione simbolica, lampo, senza effetti. Però ha un valore storico, perché è stata la prima ed effettiva occupazione a Lugano».

Ma cosa ne pensa lo storico della situazione attuale? «Autogestione e spazi per la cultura alternativa sono due cose diverse, sebbene spesso confuse. Riguardo alla storia del centro sociale siamo arrivati, con la demolizione dell’ex Macello, alla fine di un ciclo. Sia perché sul piano politico c’è meno apertura, sia perché il movimento si è indebolito. Poi c’è l’aspetto degli spazi per la cultura indipendente. Tale discorso ha avuto un’evoluzione enorme negli ultimi due anni, soprattutto dopo l’esperienza della Straordinaria di cui, a parte certi ambienti molto chiusi e destrorsi, nessuno parla male perché ha saputo in qualche modo aprire una prospettiva nuova» conclude Baratti.

‘L’occupazione nasce per riempire un vuoto’

«Il Molino nasce nel 1996, con l’occupazione dei Molini Bernasconi, che nasceva a sua volta da un vuoto che c’era nell’ambito aggregativo, associativo, culturale e politico in quegli anni. Un vuoto che di riflesso esiste ancora oggi – ce lo racconta Tazio, attivista di lungo corso e membro attivo del Csoa Il Molino –. Quello spazio durò però solo un anno, anche se fu un anno molto fervido e denso di attività, a causa di un incendio doloso, che ci spinse a trasferirci al Maglio, poco fuori il quartiere di Cornaredo. Quell’esperienza durò fino al 2002, anno in cui ci fu un nuovo sgombero. Quella volta, insieme agli occupanti, vennero sgomberate anche una quarantina di famiglie dell’Ecuador, che si erano sistemate lì vicino e che avevano trovato sostegno nel centro sociale».

«Seguirono mesi di rivendicazioni, manifestazioni e presidi in piazza – continua –: tutto ciò che si viveva nel centro sociale venne portato alla luce pubblica, per mostrare che sotto quella superficie c’era ancora fuoco. Queste rivendicazioni portarono infine a entrare nello spazio dell’ex macello che, in quel momento, nel 2002, era uno spazio completamente lasciato deperire. I muri grondavano ancora sangue, i tetti avevano infiltrazioni da tutte le parti. Si respirava ancora l’aria di morte tipica del macello, e da vari anni non c’era nessun progetto su quello spazio. Iniziò dunque l’ennesimo lavoro di ricostruzione di uno spazio abbandonato per ridare una cultura di vita a un luogo che era di morte, e proprio un luogo di macellazione di animali per 25 anni ha vissuto di cultura, di concerti, di cene, di dibattiti, di analisi, di amicizie, di amori, di litigi, di conflitto, di marginalità, di ospitalità. E divenne un posto di cultura e di vite che magari non per forza possono piacere a tutti, ma che esistono e che non si possono cancellare».

«Questi spazi devono assolutamente avere la possibilità di esistere e di realizzarsi nelle forme che si ritengono più consone – conclude –. Quindi non esiste una sola formula, ne esistono tante, ma l’importante è che possano sempre stimolare una capacità di autodeterminarsi, e una certa forma di autogestione. E io penso che nel momento in cui qualcuno prova a dirti cosa puoi e cosa non puoi fare, c’è un freno alla capacità di realizzarsi, di autodeterminarsi ed è una visione molto patriarcale, che rispecchia anche la società in cui viviamo. Quando parliamo di cultura alternativa dobbiamo capire alternativa rispetto a cosa: rispetto al sistema dominante, rispetto a un sistema patriarcale, razzista, omofobo. E quindi una cultura alternativa dovrebbe portare esattamente un altro tipo di esperienza e di visione del mondo».

‘L’idea romantica dell’artista solitario non mi appartiene’

A Molino Nuovo, in via Pier Francesco Mola 14, si trova l’atelier condiviso ‘Spazio Fervida’ dove ci accoglie la co-fondatrice Marta Margnetti. Di professione artista visiva e agente culturale, la giovane ha una lunga esperienza nel campo della cultura “che nasce dal basso”. Terminati gli studi in Svizzera interna, fa ritorno in Ticino dove, dal 2013 al 2018 è stata co-fondatrice e co-direttrice dello spazio d’arte Sonnenstube e dal 2018 al 2020 è membro attivo del collettivo Morel. «Ho sempre praticato la mia professione in spazi condivisi: che fosse nell’atelier di una scuola oppure in luoghi gestiti da collettivi di artisti. A Berna, per esempio, ho lavorato per diverso tempo in una bellissima villa insieme ad altre dieci persone –, spiega Margnetti, che continua: – Non corrispondo a questa idea romantica che vuole l’artista rinchiuso in completa solitudine nella sua stanza. Ho bisogno e ricerco relazioni sociali e professionali».

Compartecipare: «Chiaramente, quando condividi lo spazio con diverse persone, hai a che fare con professionisti di altri ambiti affini al tuo. Mi aiutavano a costruire e a saldare le opere, condividevamo anche la strumentazione. Tutte queste persone, in un qualche modo, le ho fatte confluire all’interno della mia pratica».

«Un giorno veniamo a sapere di questo luogo, dove ora si trova lo “Spazio Fervida”». Per Marta è chiara la necessità di fondare un'associazione; un gruppo che proponesse dei contenuti culturali che andassero al di là del proprio ambito professionale. «Le artiste si nutrono di relazioni e di esperienze di vita e di solidarietà: non c'è posto migliore di questo».

‘In Ticino la cultura indipendente non è presa sul serio’

«In Ticino si può dire che la cultura indipendente è ancora considerata un po’ una forma di hobby creativo e non viene presa realmente in considerazione come una possibile professione». A dirlo è Tessa Prati, già consigliera comunale di Lugano, e storica dell’arte che sta svolgendo un dottorato di ricerca all’università di Berna, sul come le politiche culturali a livello cantonale influenzano la scena artistica locale. «Trovo che Oltralpe questo sia diverso: infatti ci sono Città che considerano la cultura indipendente e la scena alternativa culturale come un tassello centrale della scena locale e danno loro la giusta importanza, il giusto supporto e la giusta visibilità».

«Quello che vedo in Ticino – prosegue Prati –, è il fatto che negli ultimi anni c’è stato un radicale cambiamento nella scena alternativa, con una forte richiesta dal basso di raggiungere un maggiore riconoscimento e valore, proveniente dalle persone che ne fanno parte. Negli ultimi anni ci sono state infatti diverse nuove iniziative, con richieste chiare e concrete, che hanno elencato le necessità e i bisogni per poter sviluppare una scena alternativa locale degna di questo nome».

Ciò non significa che la cultura in Ticino sia disprezzata, ma riguarda più che altro «dei modelli di cultura tradizionali, quali possono essere dei musei come il LAC, piuttosto che delle rassegne teatrali o di musica, che sono giustamente riconosciute. È la cultura indipendente a essere ancora messa da parte, nonostante ci sia l’interesse, anche da parte della politica, di dare maggiore importanza a questo tipo di offerta. Ora la domanda è se l’interesse e l’attenzione della politica nei confronti di questa scena riuscirà a tradursi in reali cambiamenti, permettendo alla cultura indipendente di stabilirsi e crescere ancora di più».