Un gruppo di cittadini di Carabbia chiede che venga suonata la campana a morto per le vittime di Gaza. De Raemy: ‘Meglio azioni concrete di aiuto’
«È in gioco la sofferenza umana, ma anche l’indifferenza della nostra società». Il tema è l’emergenza umanitaria in corso a Gaza e il nostro interlocutore è Mauro Piazza, parte del gruppo di cittadini di Carabbia che da maggio ha iniziato a ritrovarsi ogni lunedì alla sala multiuso per una veglia per la pace. Un’iniziativa arrivata fino alla Curia: dopo averne discusso, senza successo, con il parroco locale, il gruppo si è rivolto infatti alla Diocesi con una richiesta ben precisa: far risuonare a morto la campana della chiesa di San Siro.
«La nostra richiesta è molto semplice – spiega Piazza –, far risuonare ogni sera alla stessa ora per un minuto la campana a morto per ricordare chi soffre e muore. Non si tratterebbe quindi di un defunto del posto, ma di vittime innocenti di crimini di guerra e gli abitanti verrebbero avvertiti di questo naturalmente, magari tramite una circolare». Una richiesta – partita dal signor Angelo Scavezzoni e condivisa da tutti – arrivata a don Fabrice, che si è fatto portavoce e intermediario con il Consiglio parrocchiale, che ha tuttavia rigettato la proposta.
Perché? «Ci è stato detto che verrebbe ritenuto un gesto politico. Non è così: ci sentiamo sopraffatti da quanto sta accadendo, dall’impressionante e inaccettabile numero di vittime civili e crediamo che ci si debba mobilitare e le campane sono un modo per raggiungere chi si è rifugiato nell’isolamento o nell’indifferenza. È vero partiamo da Gaza con le nostre riflessioni, ma il discorso si estende purtroppo a tutti i conflitti in corso e in generale all’allarmante deriva dell’umanità alla quale stiamo assistendo». Piazza spiega anche che sugli stessi principi è nato il gruppo spontaneo, aconfessionale e apartitico: «È un gruppo aperto al parere dell’altro, nato dalla necessità di condividere l’indignazione, la rabbia, la tristezza, che pesano sulle nostre coscienze».
Dopo il niet del Consiglio parrocchiale sulla campana, il gruppo ha dunque deciso di rivolgersi direttamente alla Curia e lo scorso 1° luglio una delegazione è stata accolta dall’amministratore apostolico della Diocesi di Lugano Alain de Raemy. «L’incontro è andato bene – ci dice Piazza –. De Raemy ci ha ascoltati e ha dimostrato interesse nei confronti della nostra iniziativa, abbiamo percepito un’attenzione reale e una condivisione dello spirito che anima il nostro bisogno di incontrarci in risposta a questa barbarie. Sulla campana la sua risposta è rimasta in sospeso, ci ha detto che non vorrebbe che fosse percepita come un’azione divisiva, ma noi non riteniamo che lo sia. In ogni caso per noi era giusto provarci. Anche se il nostro appello non dovesse venir accolto, andremo avanti con le nostre iniziative. È stata una discussione interessante, durante la quale è emerso anche il ruolo della Chiesa di fronte a un’emergenza come questa».
E a tal proposito, proprio a monsignor de Raemy abbiamo chiesto un parere sulla proposta partita da Carabbia. «In molti luoghi troviamo guerre, terrorismo, crimini e violazioni dei diritti umani: una guerra a pezzi, come più volte ha ricordato papa Francesco. Suonare le campane a morto può essere un gesto per ricordarci di questa situazione globale. Ma fino a quando dovremo suonarle, allora? Fino a quando il conflitto più vicino a noi non ci preoccuperà più?», si chiede il vescovo. Ma se da un lato le autorità politiche – il Consiglio di Stato in primis, ma anche diversi Comuni, fra i quali Lugano e Bellinzona, hanno aderito alla convenzione di Ginevra e Losanna – si sono mosse, quelle religiose cosa fanno? «La difficile situazione mondiale mi ha spinto a rivolgere un appello alla preghiera per la pace, nel rispetto del diritto internazionale e umanitario, ovunque nel mondo e contro ogni tipo di violenza. Oggi è indispensabile un cessate il fuoco universale, con il ritorno a casa dei prigionieri e degli ostaggi di guerra». Un appello trasmesso ieri a tutte le Parrocchie, comunità di vita consacrata, movimenti e associazioni. Ma che non si limita alla preghiera.
De Raemy ha infatti concordato direttamente con il cardinale Pierbattista Pizzaballa – patriarca latino di Gerusalemme – un aiuto concreto alla popolazione di Gaza. Da giugno infatti ai rappresentanti del Patriarcato è stato permesso di recarsi nuovamente nella Striscia e pertanto chi lo vorrà potrà aderire con «un aiuto materiale alla popolazione, in ostaggio fra diverse violenze: con cibo, cure mediche e aiuti all’istruzione». Un gesto che «non rappresenta nessuna connotazione politica o religiosa» sottolinea il vescovo, riportando che il cardinale definisce la situazione a Gaza «una vergogna», ma che «non chiede gesti a connotazione unilaterale, perché i cristiani sono chiamati a difendere la dignità di ogni persona, dall’ostaggio violentato al bambino innocente ucciso. Per questo serve sia la quotidiana preghiera universale per la pace, aspetto cardine della liturgia della Chiesa, che una solidarietà concreta».