Azione del Collettivo al Centro federale di via Motta dopo le morti di due giovani in poco tempo. Le storie di chi attende di conoscere il proprio destino
È il primo pomeriggio di oggi, domenica, quando i primi attivisti del Collettivo R-esistiamo raggiungono il Centro federale di via Motta a Chiasso. Sistemato un banchetto con generi di conforto, vengono appesi alla recinzione alcuni striscioni. Su tutti ne spicca uno che dà il ‘benvenuto’ in varie lingue. «Vogliamo far capire alle persone che vivono all’interno della struttura che siamo qui per loro e non contro di loro, come ci dipingono», tengono a ribadire. Cancelli chiusi, da dentro la sicurezza controlla la situazione, mentre il gruppo cresce fino a contare oltre una trentina di manifestanti di tutte le età. A differenza del solito nel cortile non vi sono ospiti intenti a fumare e chiacchierare. Ma per R-esistiamo non è una novità: «Succede ogni volta che chiediamo di poterci incontrare con i richiedenti asilo e di poter far sentire la nostra vicinanza; di poter avere uno scambio, un’interazione sociale. Ecco che all’interno viene detto che siamo persone pericolose».
Il Collettivo, che dalla sua nascita si batte contro "ogni forma di razzismo e di discriminazione, ogni frontiera – come si legge in un volantino –, non poteva, però, non essere qui oggi. «Dopo le morti di due ragazzi giovanissimi nel giro di poche settimane, volevamo far sentire la nostra solidarietà alle persone che sono all'interno dei Centri – ci spiega l'avvocato Immacolata Iglio Rezzonico, prendendo la parola –. Sono persone che subiscono, e uso volutamente questo termine, costantemente le procedure. Procedure che fanno ammalare, disumanizzano: le persone vengono considerate solo dei numeri. Detto altrimenti, non si tiene assolutamente conto neanche della situazione a livello mondiale e nei Paesi dai quali provengono e dove la Sem – la Segreteria di Stato della migrazione, ndr – vuole rinviarli facendo leva sul Regolamento Dublino. E ciò con la motivazione che sono tutti Stati dove si può vivere con tranquillità».
Quanto accaduto al ragazzo algerino trovato senza vita nel greto del riale Raggio a Balerna una sera a fine marzo e una decina di giorni più tardi al giovane sudamericano che si è lasciato cadere dal cavalcavia in pieno centro a Chiasso pesa ancora. Quindi, si lascia intendere, non si può stare zitti. Sul posto veniamo a sapere che a spingere il secondo richiedente asilo a quel gesto estremo è stato il rifiuto alla sua domanda di poter restare. Su altri come lui che alloggiano in via Motta – al momento tra la cinquantina e la sessantina di persone, tra cui anche famiglie con bambini – pesa, in effetti, il Regolamento Dublino.
All'improvviso ecco aprirsi il cancello, alla spicciolata escono tre ragazzi, accolti dall'applauso del presidio. Tengono tutti a portare la voce dei compagni del ‘campo’ e la gratitudine per il sostegno dimostrato. Nel Centro, ci confermano, stanno bene: se chiedono aiuto, lo ricevono. Anche perché nel loro migrare hanno visto di peggio. La vera spada di Damocle, annotano a chiare lettere, è il ‘sì’ o il ‘no’ che attendono dalla Sem. Il giovane iraniano che ci narra la sua storia ha poco più di vent'anni. Sulla felpa, in bella evidenza, c’è lo slogan del movimento di protesta delle donne del suo Paese: ’Donna, vita, libertà‘. Lui, che è arrivato in Svizzera con la madre, il verdetto lo ha già ricevuto: ’Rifiutati‘. «Dovremo tornare in Grecia, il nostro primo approdo in Europa», ci spiega. Come altri, insomma, saranno respinti. Quando ha ricevuto la notizia, racconta, la mamma ha subìto un crollo psicologico e ha dovuto essere ricoverata alla Clinica psichiatrica, a Mendrisio: «Questa situazione – sottolinea – ti fa ammalare».
Un altro giovane come lui, ma palestinese, una risposta l'aspetta ancora. Prima di giungere qui in Svizzera ha peregrinato per cinque anni in Europa. «Sono stato in Olanda, Belgio e Francia e ho conosciuto il razzismo. Qui si sta bene. Il problema è la decisione che riceverò dalla Sem. Chiedo solo una vita in libertà, ma sin qui ho sempre ricevuto dei rifiuti», fa sapere. Anche lui la prima domanda d'asilo l'ha depositata in Grecia, e lì rischia di dover tornare, sapendo che non troverà casa, lavoro o la possibilità di imparare la lingua.
Un racconto che si ripete quando a prendere la parola è un altro ragazzo, di origini africane. Pure lui dovrà fare i conti con il Regolamento Dublino. «Vivo – dice – nell’attesa di sapere se la risposta sarà affermativa o negativa. Dipenderà dalla Segreteria di Stato della migrazione». Una precarietà difficile da reggere; e allora si va avanti a calmanti. Ogni giorno, si chiarisce, si teme il momento in cui il legale della Sem recapiterà quanto è stato deciso. E a quel punto, ci lasciano intendere, c’è chi non ce la fa. Come è successo alla mamma del ragazzo iraniano.