Di giorno l’illusione della normalità, di notte la metropolitana di Kiev resta il rifugio di migliaia di persone che cercano protezione dalle bombe russe
A Kiev la guerra continua a convivere con la quotidianità. Le strade sono affollate, i caffè animati, i bambini giocano nei cortili. Una illusione di normalità apparente che dura poco. La metropolitana, ogni notte, torna a diventare la madre comune di decine di migliaia di persone che la abbracciano, cercando conforto e protezione nelle sue profondità dalle bombe russe. Il senso di attesa perenne, dilata all’infinito il tempo della tanto sospirata alba. Non è facile dormire in queste condizioni. Quando arriva il suono del cessato allarme, la mattina, si ricomincia a vivere contando feriti, morti, distruzione. Un’altra giornata davanti per tutti gli altri. È in questo contesto così incerto, che si snoda un percorso alla ricerca del senso di solitudine e di abbandono che attanaglia molti ucraini e che li rende incapaci di pensare a un futuro che vada oltre alla parola ‘domani’.
«Il senso di solitudine? Credo che molti lo sentano ogni sera. Leggono le notizie sull’Europa e trovano parole rassicuranti su un aiuto continuo, sull’invio di aiuti umanitari, finanziamenti, armi, sulle promesse di restare al nostro fianco finché sarà necessario, ma poi sentono suonare l’allarme aereo», dice Vladislav Maistrouk, giornalista. «E quello è il momento più duro, in cui ti devi alzare dal letto e andare verso la metropolitana per nasconderti, sottoterra, per non essere ucciso da un missile o da uno Shahed russo. Quello è un momento di solitudine estrema. Perché nonostante l’attenzione del mondo e tutte le parole rassicuranti che puoi leggere o vedere in tv, lì sei solo. Solo davanti alle bombe. Solo davanti all’aggressore. Ogni notte». Il riso nervoso di Vladislav mentre parla, seduto al tavolino, guardando il fondo della sua tazzina di caffè in un piccolo locale arredato come un salotto di casa pieno di oggetti e chincaglieria. Un gatto della fortuna agita la zampa ai clienti che arrivano alla spicciolata. L’eco della guerra arriva anche qui. Una bandiera militare della 82ª brigata campeggia sopra un divano. Poster patriottici. Dietro al bancone c’è una cornice con una fotografia di una ragazza in divisa: si chiamava Yrina Tsybukh, paramedica e attivista, morta recentemente in prima linea. Una cliente abituale, dice la barista. Un’amica. Presenza silenziosa, eppure ancora viva tra le pareti. Vladislav è cresciuto in Italia, in Toscana. Nei primi mesi dell’invasione era spesso ospite nelle trasmissioni italiane. Oggi le sue apparizioni sono rare, così come è diventato sempre più raro sentire testimoni, corrispondenti e sopravvissuti di una guerra che sembra essere stata messa in secondo piano e raccontata asetticamente da chi, in Ucraina, non ha mai messo piede. «È come quando lasci tuo figlio a casa, gli dici: “Se arrivano i ladri, chiama la polizia”. I ladri arrivano, la polizia no. E tuo figlio si nasconde sotto il letto, come nel film ‘Mamma ho perso l’aereo’. Un film leggero, divertente, ma se ci pensi quel bambino ha vissuto un trauma vero. Molti ucraini si sentono così. Ogni notte. E questo senso di abbandono è aumentato. Dopo Bucha, pensavamo: adesso sì, l’Europa reagirà, sarà come nella Seconda Guerra mondiale. E invece niente. Dopo l’esplosione della diga a Nova Kakhovka, un vero e proprio ecocidio con migliaia di morti tra persone e animali, anche lì, nulla. Anzi, qualcuno ha pure detto che la diga è crollata da sola. Episodi come questi ce ne sono stati tanti. E ogni volta siamo restati da soli. Io sono stanco. Stanco di essere ottimista. E stanco anche di essere pessimista». Il figlio di Vladisav è autistico, e per quello lui è esente dalla mobilitazione. Una preoccupazione in più, per famiglie come la sua, con figli con disabilità, che devono cavarsela come possono, in un momento dove tutti gli sforzi sono indirizzati verso la guerra. Sui social lo insultano tutti i giorni dicendogli: “Perché non vai a combattere?”. Lui non risponde. Sarebbe inutile. «Quando credi di essere nel giusto, vai avanti. Se ci sono persone di buona volontà che ti stanno accanto, bene. Se no vai avanti lo stesso. Si può anche perdere. Anche gli Spartani hanno perso, quei 300 alle Termopili. Eppure, li ricordiamo. Anche allora c’era chi diceva che era meglio non combattere, che in fondo con i persiani non sarebbe stato male. Ma oggi, chi si ricorda più di loro?».
La galleria d’arte Vakulenko si trova poco distante dal palazzo della Filarmonica di Kiev. Qui ogni venerdì si incontrano decine di persone per discutere, giocare, bere e mangiare insieme. La regola è che ognuno deve portare qualcosa da casa. Scrittori, politici, diplomatici, giornalisti, artisti. Una ‘tradizione’ iniziata con il Covid e proseguita ancora con più convinzione da quando è iniziata l’invasione. Un modo per non restare isolati, soli. Qui incontriamo Katya Nesterenko. Prima dell’invasione su vasta scala, lavorava in un notiziario quotidiano dedicato ai fatti di cronaca. Dal 24 febbraio 2022, Katya è diventata una delle conduttrici della ‘maratona nazionale’, un’iniziativa che ha unito tutte le emittenti televisive ucraine in un unico palinsesto H24 per raccontare gli eventi in Ucraina e nel mondo. «Mi sento un po’ tradita – racconta –. Non mi sarei mai aspettata che la stanchezza dell’Occidente, e dell’Europa in particolare, arrivasse così in fretta. Manca una comprensione piena di ciò che sta accadendo, e non si percepisce la reale minaccia rappresentata dalla Russia. Abbiamo bisogno di costruire una nuova struttura, un’organizzazione capace di difendere davvero sia l’Ucraina che l’Europa. Le cose stanno cambiando molto rapidamente, e forse qualcosa di nuova sta nascendo, qualcosa che potrà diventare una fortezza per l’Occidente contro questa minaccia. Lo spero. La mia speranza non muore. Spero davvero che questa stanchezza fisica, mentale, che ormai ci portiamo addosso ogni giorno, possa svanire. Magari per un miracolo delle nostre industrie militari, per l’aiuto dell’Occidente, per il sostegno europeo e americano. Non lo so, io continuo a sperarci. Non è giusto essere lasciati soli in questa situazione. Noi non siamo gli aggressori, siamo le vittime: e stiamo difendendo la nostra libertà, le nostre vite, da chi ci vuole annientare. E ci stiamo abituando a questo, purtroppo. Quando la Russia bombarda, non tutti scendono più nei rifugi quando suona l’allarme. Ci siamo tragicamente abituati a tutto questo. L’idea di poter perdere la vita è ormai quasi una normalità, e io stessa, come tanti altri, non mi muovo più di casa. Ricordo lo scorso giugno, quando un missile ha colpito un palazzo nel distretto di Solominsky: sono morte ventinove persone, anche bambini. Ho passato la notte in casa, tra le mura del corridoio. Vivo al quattordicesimo piano: dovrei prendere l’ascensore o farmi tutte le scale a piedi per arrivare al rifugio. E ogni volta che ci penso mi prende l’ansia di non fare in tempo o che mi cada addosso il rottame di un drone. Sono rimasta lì».
Dentro la sala principale della galleria sono esposte delle tele di David Burliuk, considerato il padre del futurismo russo. Burliuk era ucraino, nato nella provincia di Sumy, e come tale ha sempre voluto considerarsi. Amava definirsi come un “nativo delle steppe ucraine”, ma per il mondo era stato prima un cittadino dell’impero russo e poi sovietico. Si auto esiliò prima in Giappone e poi negli Stati Uniti. La guerra logora, e lo fa in silenzio. Una notte, durante un allarme aereo, mi sono ritrovato sulle scale di una metropolitana, sottoterra, insieme a centinaia di persone. Chi con il proprio animale da compagnia, chi con i figli piccoli. Coppie, famiglie, persone sole. Eppure, in quella folla, ho percepito un senso profondo di solitudine. Perché in quel momento non eravamo davvero insieme: eravamo soli, ciascuno davanti a qualcosa di incontrollabile. Soli con la paura, soli con l’incertezza, soli sotto una pioggia di droni e missili. È questo il sentimento che oggi attraversa l’Ucraina: una solitudine collettiva che continua a chiedere di essere ascoltata. Eppure, quando la mattina la vita riprende e il convoglio della metropolitana si ferma nuovamente sulla banchina, un soffio d’aria fredda e polvere accoglie la folla che risale i gradini. In quel flusso di persone, l’occhio si posa su una coppia di anziani con un piccolo cane. Lui la tiene per mano. Erano stati lì, vicini a una colonna sulla banchina, con le loro stuoie e qualcosa da mangiare, il cane accucciato tra loro.
Ancora più lontano, a Kharkiv, Alla e Yevhen raccontano della loro vita stravolta dalla guerra. Sono due volontari. Là vivono ogni giorno la guerra, perché questa città la respira come senso di assedio fin dal primo giorno dell’invasione russa. Qui non c’è tempo per scendere in metropolitana, né per pensare al resto del mondo. La distanza e la solitudine aumentano anche rispetto a Kiev e ai suoi abitanti, come se ci fossero due guerre diverse e due Paesi diversi. La solitudine qui è più profonda, un isolamento che pesa sulla pelle, dovuto non solo alla vicinanza del conflitto ma anche alla sensazione di essere dimenticati, lontani dagli sguardi e dalle attenzioni che arrivano altrove. «Capisco che tutti i leader che vengono in Ucraina sono troppo lontani dalla guerra. Kiev, fino a poco tempo fa, era il posto più sicuro: bar, ristoranti, asili, scuole, musei e teatri aperti, e la gente reagiva agli allarmi solo a volte. A Kharkiv è quasi impossibile reagire: i missili partono dal territorio russo e arrivano in 40 secondi. Capite? Quaranta secondi. E solo se capisci che ne sta arrivando un altro, forse cerchi un rifugio. Qui è tutta un’altra storia. Qui ci sono bombardamenti quotidiani. Arrivano droni di ogni tipo. E ci sono bombe. Bombe da 500 chili. Giorni fa, una da 1’500 chili è caduta qui vicino. Kharkiv è vicina al fronte, e le persone vivono in condizioni durissime. Non ci sono scuole, non c’è una vita normale. È una roulette russa. Giri il tamburo e premi il grilletto. Vivere qui è questo. E allora, che cos’è, per me, l’Europa? Sono le persone che vogliono aiutarci. Non i politici, perché non tutti capiscono. Dicono: “Vi manderemo l’equipaggiamento fra tre mesi. Fra tre mesi molte persone saranno già morte. L’Europa ha dimenticato cosa significa la guerra. È successo troppo tempo fa. Ora per molti è solo un film, qualcosa da guardare. Ma i razzi non colpiscono solo palazzi. Ci sono le schegge. Le amputazioni. Le disabilità. Le braccia perse. Le gambe strappate. La guerra vera non la capiscono. Non possono capirla». Evgen ha trasformato parte della sua casa in un deposito di beni di prima necessità. La sua famiglia è a ovest. Lui e Alla si occupano degli ultimi: anziani non autosufficienti, persone che hanno perso tutto, orfani. Raccolgono anche materiale medico per il personale militare. Tutte cose che arrivano tramite una rete di volontari da Germania e Italia. Mentre l’Europa osserva da lontano, chi resta qui combatte ogni giorno per non scomparire nell’oblio.