Lanciata la raccolta firme per l’iniziativa del Centro sostenuta da un comitato trasversale. ‘Urgente affrontare l’abuso dei dispositivi digitali’
«È un tema troppo importante per essere lasciato al caso o a delle direttive volatili che dipendono dagli umori di chi può modificarle. Oggi l’evidenza degli effetti dannosi che gli smartphone producono sui nostri ragazzi impone un intervento». Argomenta in questo modo il presidente del Centro Fiorenzo Dadò i motivi alla base dell’iniziativa popolare ‘Smartphone: a scuola no!’ ufficialmente lanciata dal suo partito e presentata da un ampio comitato di sostegno interpartitico e interprofessionale. La proposta è di ancorare alla Legge cantonale sulla scuola la regolamentazione dell’utilizzo di tali dispositivi attraverso uno specifico articolo, il 56a, che recita: “Agli allievi di scuola dell’infanzia, scuola elementare e scuola media non è consentito portare con sé, a scuola e durante le attività formative previste dalla legislazione scolastica, smartphone e altri dispositivi connessi o connettibili”. E: “Il Consiglio di Stato disciplina mediante regolamento le modalità di applicazione del capoverso precedente e stabilisce le sanzioni applicabili in caso di trasgressione”. Eppure già dal 2020 nelle scuole medie ticinesi l’uso dei dispositivi digitali personali è vietato durante le lezioni e le ricreazioni e questi devono essere spenti e non visibili all’interno del perimetro scolastico, modello che recentemente la direttrice del Decs Marina Carobbio ha rilevato di voler estendere anche a livello comunale. Ma per i promotori dell’iniziativa le direttive esistenti, emanate in seguito a un atto parlamentare di sette anni fa elaborato anche da due di loro, non sono sufficienti: «Nel 2018, insieme agli ex colleghi in Gran Consiglio Maristella Polli ed Henrik Bang, avevamo presentato una mozione per limitare l’uso degli smartphone nella scuola dell’obbligo – ricorda il consigliere nazionale del Centro Giorgio Fonio –. Da questo atto politico è scaturita l’emanazione da parte del Decs delle direttive in questione, che però non hanno sortito né gli effetti sperati, né tantomeno un’uniformità nella loro applicazione in quanto ogni istituto è libero di gestire gli smartphone come meglio ritiene».
A supporto della necessità di mettere mano alla situazione, prosegue Fonio, «la scienza in questi sette anni ha evidenziato in modo importante gli effetti nefasti di un uso precoce degli smartphone sulla salute e quindi sullo sviluppo dei nostri giovani. Per questo abbiamo ritenuto inderogabile il lancio di questa iniziativa che prevede un quadro legislativo più vincolante. È fondamentale per proteggere la salute psico-fisica dei nostri ragazzi e permettere loro di diventare gli adulti che desiderano». Precisa Dadò che «non si tratta di demonizzare la tecnologia ma di valorizzarla. Gli strumenti digitali quando inseriti nei percorsi didattici sono molto preziosi, ma lasciati senza controllo nelle mani dei ragazzi diventano un ostacolo e uno strumento che può portare anche a tanta sofferenza». L’impatto sulla salute fisica e mentale dei giovani è messo in luce anche dal pediatra Claudio Codecà: «Aderire a questa campagna significa lanciare un segnale d’allarme, forte e necessario sull’urgenza di affrontare l’abuso dei dispositivi digitali. È una questione che riguarda tutti: dai più piccoli, il cui sviluppo armonioso è messo a rischio, fino a noi adulti».
Per il deputato del Centro Giuseppe Cotti «gli slogan educativi, le buone pratiche e le direttive non bastano più, dobbiamo guardarci negli occhi e dirci che da qualche parte abbiamo fallito ed è necessario un atto di responsabilità». Sottolineando che la legge sulla scuola stabilisce aspetti minuziosi come la durata di un’ora di lezione (50 minuti), allora dovrebbe normarne «anche uno infinitamente più importante come la salute e il futuro dei ragazzi». La granconsigliera Plr Simona Genini sintetizza così il problema: «Senza stare attenti a scuola non c’è possibilità di apprendere, senza apprendimento non c’è istruzione, senza istruzione non c’è né libertà, né cittadinanza. Siccome i telefonini a scuola sicuramente distraggono, limitarli a scuola argina la libertà di distrarsi e garantisce quella ben più grande di imparare». Un concetto ribadito dalla deputata di Avanti con Ticino&Lavoro Amalia Mirante, lei stessa docente, che cita studi secondo cui le scuole che limitano i telefoni abbiano «studenti più concentrati, con valutazioni migliori e meno episodi di bullismo».
Per il consigliere nazionale democentrista Paolo Pamini limitare la libertà di un minorenne non è un problema in quanto non è ancora capace di gestire in piena autonomia la propria vita, lo è per contro l’eccessiva protezione nel mondo reale e la totale autonomia nel mondo digitale «che producono ansia, disturbi del sonno e depressione». Giovanna Pedroni, presidente dei giovani del Centro, osserva come «un oggetto da 200/300 grammi non può pesare così tanto sul futuro dei nostri giovani. Come politica dobbiamo agire, altrimenti avremo una società più fragile». Mentre Maristella Polli, ex granconsigliera Plr, rievocando la lunga battaglia parlamentare condotta sul tema, si dice convinta che «i nostri ragazzi devono tornare a giocare liberamente con i compagni, non in modo solitario davanti a uno schermo». Della partita è anche Pierfranco Longo, presidente della Conferenza cantonale dei genitori, che si riferisce all’iniziativa come a «un’occasione straordinaria per darsi una regola comunitaria», estendendo la pausa digitale anche al tragitto per e dalla scuola, spesso sede di problematiche. Tuttavi la proposta – tengono a precisare i promotori – si concentra sul luogo dell’attività didattica, mentre le questioni pratiche su dove lasciare i dispositivi o come comunicare con la famiglia, potranno essere discussi durante la campagna e gestiti a livello politico e normativo. Novità rispetto a ora è anche l’esplicitazione delle sanzioni per chi trasgredisce, ciò che attualmente verrebbe fatto di nascosto da molti allievi, «basta chiedere a chi frequenta le scuole per rendersene conto», dice Dadò. Che conclude: «La nostra scelta si fonda sul principio chiaro, permettere alle nuove generazioni di crescere in un ambiente sereno dove apprendere a giocare e relazionarsi significa davvero prepararsi alla vita».