Mostra bella e intensa quella aperta fino al 6 luglio a Roma a Palazzo Barberini, luogo simbolo della connessione tra l’artista e i suoi mecenati
“Quid est veritas?” che tradotto significa “Cos’è la verità?”. È la domanda che Ponzio Pilato pone a Gesù durante l’interrogatorio che precede la sua prossima fine. Osservandone i dipinti, taluni più di altri, mi sono più volte immaginato che anche Caravaggio si sia spesso interrogato su cosa sia la verità per uno che come lui fa pratica di pittura… dopo gli ideali del Rinascimento, dopo i virtuosismi ‘artefatti’ del Manierismo, di fronte a un mondo che stava velocemente cambiando e si faceva sempre più incerto. Una cosa è invece certa: che con la sua arte egli riporta la pittura sulla terra, la colloca a livello di suolo, tra bagliori di luci e profonde gole di ombre che tramano la tela e scorporano figure che emergono dal buio e vivono la breve durata di un battito d’ali, lasciando nell’osservatore la sensazione di una ineludibile precarietà.
La seconda certezza è che i suoi dipinti hanno avuto un effetto tanto travolgente e dirompente sugli artisti suoi contemporanei – da Orazio Gentileschi, Giovanni Baglione, Simon Vouet a Valentin de Boulogne, Giuseppe de Ribera e al nostro Serodine per non citare che i più noti – da marcare indelebilmente la storia dell’arte: tali e tanti furono coloro che trassero ispirazione e fecero propria la cifra stilistica del grande Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, dal luogo di provenienza della famiglia. Era dunque di origini settentrionali, nato e formatosi a Milano, nel solco di quel naturalismo lombardo che gran peso avrà nell’impostazione della sua arte. Si trasferirà poi a Roma, nel 1595, all’età di 24 anni, dove esploderà il suo genio artistico, ma dove vivrà anche l’ultimo quindicennio della sua vita sbandata e finita male, precocemente, nel 1610, a soli trentanove anni. È in quel breve giro d’anni che Caravaggio brucia tutto: i suoi amori, le sue passioni, le sue tracotanze e le sue irrequietezze, la sua vita, disordinata e violenta, ma anche la sua arte, lavorando disperatamente e dissipando, altrettanto disperatamente, quanto guadagnava. Ma di una novità e forza da venir considerata oggi più che ieri, scrive Keith Christiansen in catalogo, “come l’origine della modernità nella pittura europea”. In che senso?
Museo Nacional Thyssen - Bornemisza , Madrid
Santa Caterina di Alessandria, 1598-1599 c.a., olio su tela; 1733x133 cm
‘Caravaggio 2025’, la bella e intensa mostra in corso a Roma, per di più a Palazzo Barberini, con alcune opere del maestro che tornano nella sede che già le accoglieva, in un luogo simbolo della connessione tra l’artista e i suoi mecenati, crea un percorso che, nel momento stesso in cui riposiziona l’osservatore dentro gli spazi che hanno fatto la grande storia, esalta pure la potenza e la modernità della pittura di Caravaggio: non solo ricapitolando per sommi capi la storia della sua arte, ma svelando pure, tra le recenti scoperte, un paio dei suoi rarissimi ritratti, tra cui il Ritratto di Monsignor Maffeo Barberini, futuro papa Urbano VIII che molto operò per la grandezza di Roma.
La rassegna, che non ha voluto prelevare i dipinti del maestro visibili nelle chiese romane (tra cui le celeberrime Cappelle Cerasi e Contarelli, approntata per l’Anno Santo del 1600!), documenta con opere di altissimo livello alcuni momenti e passaggi della sua evoluzione che noi ridurremo qui ai due più evidenti. Il primo, quando giunto a Roma per affermarsi sul mercato dell’arte sorprende l’ambiente artistico con nature morte e scene di genere dipinte con una vitalità e una naturalezza mai viste prima, con luminosità soffuse e morbide, talvolta pure dai toni chiari e colori primaverili, che infrangevano però “i presupposti estetici della pittura rinascimentale e le distinzioni tra la finzione artistica idealizzante e il mondo dell’esperienza quotidiana”. Come nella Buona Ventura, del 1597, o in altri due capolavori, sempre del 1597, già appartenuti alle collezioni della famiglia Barberini e oggi in mostra: i Bari, oggi in Texas, dai colori ancora vivi ma che già si abbassano, per un sottile velo d’ombra, nei Musici del Metropolitan di New York. Non così nella Santa Caterina del 1598, terza opera che, dal Museo Thyssen, ritorna nell’antica sede, dove il nero dello sfondo già comprime: chiaro “segno di un cambiamento stilistico nella carriera dell’artista che la distingue dalla sua produzione giovanile”.
Icon Trust
Ecce Homo, 1606-1609, olio su tela; 116x86 cm
Da questo momento le cose accelerano a un ritmo impressionante e travolgente, e la sua pittura, in particolare quella religiosa (contrariamente alle esortazioni del Concilio di Trento a favore di un’arte dall’impianto chiaro e naturale, semplificata e leggibile), si fa sempre più concitata e drammatica per via del buio che avanza, dei fasci di luce radente che illuminano la scena a frammenti, del suo taglio compositivo ravvicinato per non dire debordante, nonché per la forte drammatizzazione espressiva dei personaggi: tirati spesso in primo o primissimo piano, non mai colti in un momento di pausa o riflessione ma sempre nel vivo dell’azione, come trascinati dal gorgo impetuoso della vita. Sparita la ideale compostezza dell’immagine, scomparsa del tutto anche la luce omogenea o zenitale che un tempo avvolgeva il tutto e lo riconduceva ad unità compositiva e formale. Qui tutto è dato per battimenti di luce e disarticolazione di immagine che fanno correre l’occhio dell’osservatore, coinvolgendolo, da un punto all’altro, come impossibilitato a fermarsi o a vedere l’intera scena in un solo colpo d’occhio. In questo stanno dunque la verità e la modernità di Caravaggio la cui arte non è idealizzazione e neppure solo gran bella copia del mondo, ma si fa invece espressione soggettiva di una percezione non rappacificata della vita – al di là di qualsivoglia codificazione o indirizzo stilistico del tempo –, estrinsecazione del proprio personale sentimento del vivere che si spinge, negli ultimi suoi dipinti, fin sull’orlo di un grande vuoto.