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Parole e immagini di Mario Giacomelli

‘Il fotografo e il poeta’, a Palazzo Reale, Milano, è una mostra che si sofferma sull’importanza della poesia come motivo ispiratore del suo lavoro

A Milano fino al 7 settembre. Mario Giacomelli, Caroline Branson da Spoon River, 1958
(Archivio Mario Giacomelli)
30 giugno 2025
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Due ampie rassegne, di diverso taglio, l’una nelle sale di Palazzo Reale a Milano, l’altra in quello delle Esposizioni a Roma, rendono doveroso omaggio alla figura del celebre fotografo marchigiano Mario Giacomelli (1925-2000) nel centenario della sua nascita. Mentre quella romana si concentra sul rapporto tra Giacomelli e il mondo dell’arte (era stretto amico di Alberto Burri, per fare un solo nome), quella di Palazzo Reale – ‘Mario Giacomelli. Il fotografo e il poeta’ – si sofferma sull’importanza della poesia come motivo ispiratore del suo lavoro: dal conterraneo Leopardi, a Montale, Pavese, Caproni, all’Antologia di Spoon River. Va subito detto che lui dipingeva e scriveva poesie.

Ma per tornare al fotografo: la fotografia, tra arte e poesia. È l’indicazione di un orientamento che si stacca subito dall’idea di documentazione sociologica e oggettiva delle condizioni di vita nelle regioni italiane, in linea con il Neorealismo letterario e fotografico postbellico. Come scrive il curatore della mostra, da “autodidatta, poeta visivo e sperimentatore instancabile qual era, ha saputo trasformare la fotografia in un linguaggio profondamente personale, capace di raccontare la realtà con intensità lirica e radicale libertà formale”. Per questo la sua produzione gode di una notorietà e di un riconoscimento indiscussi a livello internazionale, tanto che sue fotografie fanno parte delle raccolte di prestigiosi musei come il MoMA di New York.


Paolo Biagetti
Mario Giacomelli, 1997

Qualità e forza

Forse qualcuno ricorderà ancora la bella e intensa mostra che Mario Matasci gli ha dedicato nel 1994 nelle sale di Villa Jelmini, a Tenero, molto apprezzata dal maestro e accompagnata da raffinato e documentato catalogo. In effetti Mario Giacomelli è unanimemente considerato tra i più importanti e originali fotografi del Novecento italiano, proprio per la qualità e la forza delle sue immagini che, fin dai suoi esordi nel 1953, si staccano decisamente dal contesto fotografico di quegli anni per fissarsi nella memoria dell’osservatore. Egli non è infatti interessato alla rappresentazione oggettiva della realtà, non mira a documentare il mondo esterno, ma a smuovere corde interne sia in chi quelle immagini crea come in chi le osserva. Senza cercare compiacenze, andando anzi controcorrente e rifiutando i canoni della bella fotografia, egli fonde la documentazione con la trasfigurazione, la testimonianza con l’invenzione. Questo grazie a un processo articolato in due ben distinti momenti: quello dello scatto fotografico, a volte colto nella brevità di un attimo, ma non di rado anche profondamente pensato e inseguito come nel caso delle colline abruzzesi fresche di aratura o incise dalle ruote della mietitrebbia; il successivo era quello in cui procedeva alla stampa nel chiuso del suo laboratorio.

‘Gestualità quasi pittorica’

Come racconta la nipote Katiuscia Biondi Giacomelli “nella camera oscura operava con una gestualità quasi pittorica, mascherava, schiariva, scuriva, scolpiva letteralmente le immagini. Era un momento creativo fondamentale quanto lo scatto”. Per questo non avrebbe senso stampare oggi i suoi negativi allo stato in cui sono, perché questo non è che la prima fase dell’atto creativo; il secondo si sarebbe verificato più tardi e avrebbe potuto realizzarlo solo lui. “Riprodurre oggi i suoi negativi significherebbe tradirne l’essenza”. Conclude poi con un’osservazione sorprendente: “Giacomelli fotografa un’idea del reale, non il reale. Questo è il suo realismo magico”.

“La fotografia – scrive infatti lo stesso Giacomelli – non è il risultato di una cosa meccanica, ma è una cosa tua proprio perché continua. Il mezzo meccanico blocca, ferma e basta, ma occorre capire che una volta scattato non si è fatto nulla: l’orgasmo vero si ha dal momento che si sceglie l’immagine e la cosa prende vita, da quel momento comincia a respirare, e se non la si vuol far morire, bisogna svilupparla in una determinata maniera, poi bisogna stampare e correggere, modificare per tenerla in vita” e darle vita. Quello che cercava era “uno spostamento verso energie fantastiche che hanno il vero senso della vita, della mia vita. Non voglio riprendere le cose, ma esprimere la potenzialità che ribalta il reale in poesia, l’imprevedibilità [fino allo] stordimento”. “Non voglio evitare la realtà, ma sento il bisogno di muovermi in altri prati, di avere altri rapporti, altre pulsazioni”. Pur lavorando con pochi mezzi rudimentali, ecco allora che nelle sue mani un volto, un cortile, una collina, quattro fili di ferro diventano la rivelazione di un paesaggio interiore, ci dicono gioie e paure, fantasmi e sogni di un uomo. Semplificando il visibile, bruciando i contrasti, lavorando sul mosso e lo sfocato, egli trasferisce il reale sul piano dell’immaginario, e l’elemento di natura si carica di visionarietà.


Archivio Mario Giacomelli
Mario Giacomelli, Io non ho mani che mi accarezzino il volto, 1961-63

Le serie di fotografie scattate negli anni e presenti in mostra danno ampia dimostrazione di questa sua geniale originalità e novità di linguaggio: alternando momenti di grande silenzi e sofferenza, come nelle fotografie scattate nell’ospizio di Senigallia, alla magnificenza dei campi abruzzesi irrorati di luce lunare e di richiami leopardiani, alla sottile ironia dei pretini che assaporano i primi sigari e giocano sotto la neve. C’è gioia e spensieratezza in queste sue immagini di pretini nel seminario di Senigallia.

“Giacomelli portava tra loro scompiglio, vita, libertà. Quei ragazzi, vestiti di nero – dice ancora la nipote –, diventano uccelli in volo, macchie nere che si librano nel cielo. È una visione poetica, una delle immagini più belle della sua fotografia come liberazione”.