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‘Spirit of Simplicity’ di Martin Kurer, l’arte senza spiegazioni

Un criterio di selezione che non fa sconti. La raccolta di opere tradizionali e d’arte contemporanea asiatica del collezionista al Musec dal 17 luglio

A Lugano fino al 16 novembre. Nella foto: Punamhan. Contenitore di legno e porcellana. Provincia di Ifugao. Etnia Ifugao. 1580-1618. 30×71×20 cm
(Kurer)
16 luglio 2025
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In un momento in cui l’arte sembra costretta a spiegare, dimostrare, giustificare – come se il pubblico fosse sempre a rischio di smarrimento epistemologico – ‘Spirit of Simplicity. The Martin Kurer Collection’ prende le distanze. “Se un’opera non funziona se non attraverso una spiegazione, allora non fa per me”, ha dichiarato il collezionista Martin Kurer, rivelando un criterio di selezione che non fa sconti. La sua raccolta di opere tradizionali e d’arte contemporanea asiatica è al centro dell’esposizione temporanea a cura dei ricercatori Nora Segreto e Paolo Maiullari, in corso al Museo delle Culture (Musec) di Lugano fino al 16 novembre.

Qui la semplicità non ha niente a che fare col minimalismo – e men che meno con l’essenzialismo da catalogo. Considerata “una delle più importanti al mondo, se non la più importante nel suo genere”, la collezione di Kurer viene per la prima volta esposta all’interno di un progetto museale approfondito, spiegano i curatori. E lo fa intrecciando arte tradizionale e contemporanea in un unico sguardo. “La semplicità è un valore di vita che abbiamo voluto evidenziare anche nel percorso espositivo, mettendo in dialogo la collezione di arte tradizionale filippina con una selezione di opere contemporanee provenienti da diversi Paesi asiatici. Le abbiamo fatte dialogare perché, in fondo, questa semplicità è un’identità collettiva che attraversa tutte queste opere”, ha sottolineato Maiullari.

Il risultato è un’esposizione che restituisce non solo la densità culturale delle opere, ma anche quella esistenziale di chi le ha scelte. “‘Spirit of Simplicity’ non è soltanto un gusto estetico per Martin Kurer. È un principio vitale, una modalità di vita”.

L’esposizione di 60 opere – di cui 51 tradizionali appartenenti ai popoli Ifugao, Kalinga e Bontok della Cordillera e 9 creazioni di artisti contemporanei – si articola in cinque sezioni: colore, matericità, spiritualità, minimalismo e stilizzazione. “Il loro punto di incontro non è in un’estetica condivisa, ma piuttosto in un’attitudine in comune: l’idea che una forma semplice possa contenere un significato profondo” dice Nora Segreto. “Lo spirito della semplicità è una qualità che attraversa epoche, culture, che è capace di manifestarsi, di declinarsi in forme diverse.”


Kurer
Zhang Lin Hai, Radiant Sunshine No. 12, 2002, olio su tela, 140×180 cm

Cinque sezioni

La spiritualità – la sezione più emotiva – apre la mostra. “È una spiritualità non dogmatica, è concreta, cioè interviene nel reale”. Zhang Lin Hai, artista cinese, rappresenta bambini identici “tra sogno e realtà”, figure replicate che diventano “mantra visivi, preghiere silenziose, spazi aperti alla vulnerabilità dell’artista”. Di fronte, le sculture hipag esposte in gruppo compatto, come a moltiplicare la loro intensità evocativa.

Poi c’è il colore. Negli scudi da battaglia dei popoli della Cordillera, i pigmenti naturali e i motivi simbolici erano usati non solo per decorare, ma per evocare la presenza e la protezione degli antenati. Il colore – spiega Segreto – è un codice visivo che riesce a creare una connessione tra il tangibile e l’intangibile, tra il visibile e l’invisibile. Lo stesso avviene nelle opere di Li Shirui, che evoca i led delle metropoli notturne in spazi “meditativi, ipnotici, un po’ psichedelici”. La sua tavolozza digitale si ricompone o si scompone a seconda della distanza, come un’intuizione.

La matericità, invece, è il regno della trasformazione. Endō Toshikatsu lavora con elementi primari, Lao Lambien con pigmenti e polveri sedimentate su carta. “La materia non è mai inerte, è viva, è sensibile, è partecipe, è testimone” afferma la ricercatrice. Lo stesso vale per i contenitori rituali la cui patina “ridefinisce la matericità dell’opera rendendola una presenza carica di memoria".

Un quarto percorso ci conduce nel terreno del minimalismo, dove la semplicità diventa tempo. Il trittico monocromo di Somboon Hormtientong non rappresenta nulla, all’apparenza, ma suggerisce: “In questa povertà dei mezzi si crea un tempo come sospeso, uno spazio per fermarsi, per osservarle, per cercare qualcosa di più, un tempo per ascoltare”. Intorno, i bulul: figure raccolte, scolpite nel legno, occhi fissi in avanti, che "non rappresentano soltanto la divinità, ma reincarnano la forza”.

Infine la stilizzazione. Mestoli e cucchiai scolpiti con manici a forma di figure antropomorfe, “racconti condensati” che tracciano una biografia culturale. Accanto, le tele di Francisco Pellicer Viri, dipinte con un solo gesto continuo, parlano di solitudine, di resilienza, di elaborazione di un lutto.

Un modo di vivere l’arte

Non è l’armonia, e nemmeno la somiglianza, a tenere queste opere insieme. “Questa esposizione non ci dice che tutte le culture sono uguali o che l’arte è universale. Però fa percepire che opere anche così diverse tra loro nel tempo, nello spazio, nella concezione, nel significato, possono in qualche modo risuonare insieme”, conclude Segreto. Perché l’esposizione non è semplicemente una selezione di opere, ma è il racconto di un modo di vivere l’arte. “La collezione di Martin Kurer non è autoreferenziale, è di certo intima, ma in qualche modo è anche aperta. Questa esposizione ci interroga su che cosa significhi vedere l’arte ancora prima di volerla capire, contestualizzare o storicizzare. Semplicemente guardarla, lasciarsene colpire, attrarre o respingere”.


Kurer
Bulul. Sculture di legno di narra e porcellana (occhi). Provincia di Ifugao. Distretto di Lagawe. Etnia Ifugao. 1645-1683. 55×17×16 cm; 54×20×19