Il Museo Castello San Materno di Ascona dedica al pittore ‘Un monumento alla bellezza’, tributo al viaggiare per tragitti tutti suoi (fino al 7 novembre)
Cent’anni fa, nel 1925, poco fuori Parigi, moriva Félix Vallotton, importante ed eclettico pittore nonché grande xilografo (non abbiamo qui spazio per parlarne) celebrato in questi giorni con mostre e convegni da più istituzioni e musei svizzeri. Era nato nel 1865 a Losanna, da famiglia borghese, rivelando presto un raro talento nel disegno tanto che, a 16 anni, si trasferisce a Parigi per frequentare l’Académie Julian, una scuola d’arte privata.
Vi arriva nel momento più eclatante di quel ‘nuovo verbo’ chiamato ‘impressionismo’ che da anni accende i dibattiti artistici, ma lui, di una generazione più giovane, sente altra musica dentro di sé, batterà quindi altre strade. Si stabilirà poi in Francia, fino a prenderne la cittadinanza, ma tornando regolarmente a trascorrere le estati in Svizzera, per ritrovare i vecchi genitori. Durante quei soggiorni si concentra soprattutto sul paesaggio locale, dipinge vedute del Lago Lemano o delle Alpi, soggetti profondamente radicati nell’identità svizzera, ma già diventati peculiari del connazionale e quasi coetaneo Ferdinand Hodler (1853-1918). Basterebbero questi pochi accenni per delineare due dei diversi orizzonti artistici – impressionismo da una parte e simbolismo/espressionismo dall’altra – con i quali Felix Vallotton ha dovuto misurarsi fin da giovane per trovare la sua strada. Che non è stata una linea retta, ricca com’è anche di svolte che non hanno comunque mai tradito il suo sentire: dagli esordi (1880-92) al periodo Nabis (1893-1900), dalla fase di transizione (1901-08) al periodo della maturità (1909-25).
Peter Schalchli
Intimités, Le mensonge, 1897
Gli anni in cui visse e operò Vallotton coincidono esattamente con quelli della modernità in arte, che si aprono con l’impressionismo e, passando attraverso il simbolismo e il Liberty, approdano poi alla rottura delle avanguardie storiche di primo Novecento. Vi porrà fine lo scoppio della Prima guerra mondiale che indurrà a un ‘ritorno all’ordine’, e cioè a un linguaggio più figurato e al recupero della lezione dei classici da cui Vallotton, pur nel variare delle sue forme, in definitiva non si è mai staccato. E come se lui fosse vissuto in una bolla d’aria mentre tutt’attorno infuriava la tempesta: “Per tutta la vita – scrive nel suo diario – sono stato colui che da dietro una finestra osserva come si svolge la vita fuori, senza farne parte”. Non sempre (si vedano i suoi tramonti sul lago), ma spesso egli assume per sé il ruolo dell’osservatore distaccato che guarda al mondo con obiettività, senza idealizzare, fissando le cose per quel che sono, nulla di più, semmai con qualcosa di meno, ma senza clamori. Come in quella sua natura morta in mostra, fatta di rose e mandarini tanto reali ma posizionati in modo tale da sembrare un messaggio cifrato, una composizione criptica sull’asse di una croce che si incastra in un gioco di triangoli.
Non sono pochi i dipinti in cui Vallotton mette in scena paesaggi (Romanel, 1900), situazioni od oggetti apparentemente banali in quanto connessi alla quotidianità più ordinaria, raffigurati per di più con un realismo che si direbbe d’altri tempi, ma che poi lasciano l’osservatore con il fiato sospeso perché qualcosa non torna. Come in quell’acqua chiara e liscia del Lago Lemano (1892) che si perde nell’immensità di un orizzonte lontano, a contrasto con l’ammasso di pietre scure in primo piano, ma tali da sembrare immagine di donna pietrificata sulla riva del lago, in attesa di una risposta che non verrà mai. O come in certi interni che si direbbero senza vita, con le porte aperte che immettono in locali senza prospettiva, dove una donna, di schiena, va cercando un paio di lenzuola dentro un armadio per la biancheria. Perfino la cézanniana Natura morta con Brocca e mele, del 1924 (un anno prima della morte!), in realtà è lontanissima dagli intenti che animavano Cèzanne, sia dal suo vibrato che dal suo riduzionismo bidimensionale e geometrizzante, e mira invece a una purezza e a un rigore formale da rasentare l’oggettività più staccata, impenetrabile come un cristallo. Come scriveva il poeta Sbarbaro: “E gli alberi son alberi, le case / sono case, le donne / che passano son donne, e tutto è quello/ che è, soltanto quel che è.”
Peter Schalchli
Entre deux murs, 1913
Siamo a un rilevante punto critico: perché questo suo lungo viaggiare per strade tutte sue, non solo gli ha consentito di creare, lungo il corso degli anni, opere che affascinano per la singolarità e novità dei loro accenti, ma ha pure fatto sì che alla fine del suo percorso si trovasse in consonanza con alcune delle recenti tendenze postbelliche: la Nuova Oggettività in Germania, il Realismo Magico in Italia, perfino con lo spirito che animava la pittura di Hopper in America. Quanto alla rassegna asconese merita posto un’osservazione rivelatrice del modo di operare di Vallotton. Vale a dire il sentire dietro le opere esposte l’occhieggiare di altre opere e di altri autori con i quali si commisura a distanza, non per copiarli ma per riviverli diversamente, più spesso per distanziarsi. Come il richiamo a Cèzanne o alla Gioia di vivere di Matisse dietro le sue Bagnanti del 1913; dietro il mazzetto incartato di violette la memoria di quello di Manet; nell’uomo pugnalato il Cristo morto di Holbein; nella Bagnante del 1906, specie nella linea azzurra dei monti, l’eco di Hodler, mentre nel dipinto con le mura di Perugia pare già di presentire il cortile di via Fondazza di Giorgio Morandi.