A oltre 20 anni dall'ultima mostra museale a lui dedicata, il Masi Lugano dedica all'artista un'ampia retrospettiva (dal 7 settembre all'11 gennaio 2026)
In un periodo di tanta angoscia per lo sgretolamento del pianeta, di feticizzazione dei prodotti di consumo, delle pratiche, dei comportamenti, dei diritti e dei valori che dovrebbero guidare la conduzione di una vita, la mostra retrospettiva dedicata dal Museo di Lugano al lavoro di Richard Paul Lohse è una minuscola finestra su una utopia e su una potenziale prospettiva esistenziale fatta di equilibrio e benessere pacifico. Quando fu posta all’artista la questione di come il suo dispositivo artistico definisca una utopia, egli “respinse con gentilezza [… e] contrappose il proprio concetto di utopia, secondo cui la sua opera sarebbe solo apparentemente utopica: in realtà essa rappresenta il futuro. Ciò in virtù del fatto che integra nella sua legge strutturale […] la realtà civilizzatrice attuale e quella futura – la standardizzazione, la normalizzazione, la serializzazione. Solo così, al culmine della modernità e della contemporaneità civilizzatrice – questa è la tesi – l’arte moderna e contemporanea potrebbe diventare futura ed ‘efficace’”.
Le parole contenute nel testo scritto da Tobia Bezzola per il catalogo che accompagna la mostra ci raccontano la ambiguità etica all’interno della quale l’artista si muove: egli contesta (“gentilmente”, precisa Bezzola) la attribuzione di utopia perché il suo lavoro in realtà sviluppa formalmente le caratteristiche della modernità che consentono un miglioramento della vita collettiva sociale e un miglioramento dell’uguaglianza nel benessere. Non si tratta quindi, secondo l’artista, di utopia ma di anticipazione del futuro e di indicazione delle condizioni strutturali e formali per costruire quel futuro. La ambiguità generata tra i concetti di utopia, apparente utopia e futuro presunto acuisce l’interesse per il lavoro di questo artista e per la specificità della sua personalità all’interno del movimento modernista e rispetto alle possibili declinazioni del ruolo dell’astrazione nell’arte. Di tutto ciò la rappresentazione artistica è una reificazione concreta: il quadro è gradevole, ci mette a nostro agio e il modo in cui è costruito o meglio in cui è progettato attraverso calcoli cromatici e matematici costituisce il fondamento strutturale della sua virtuosità. L’artista Getulio Alviani, nel 2017, avrebbe scritto su Flash Art: “Ognuna delle opere non potrebbe che essere così com’è, perché è tutto al suo posto, forma e colore”. Succede quindi in pittura ciò che per la fede modernista succede nell’architettura, nella pianificazione urbanistica, nell’ingegneria delle strutture e delle meccaniche e nella razionalizzazione della produzione industriale. Nel 1976 Harald Szeemann descrive così il dispositivo della fruizione dei suoi quadri: “l'occhio è prima attratto dalla ricchezza delle forme cromatiche; poi segue la messa a nudo dei principi del disegno, i presupposti per la nascita dell'immagine e in-fine il ripristino dell'unità visiva, ora nella consapevolezza del meccanismo pittorico”. In tal modo, il lavoro artistico cerca di costruire un sistema di valori democratico universalmente utile.
Lohse Stiftung
Dreissig systematische Farbtonreihen (1950/55)
Noi sappiamo oggi che si trattava di una utopia e anche di una ingenuità perché il razionalismo costruttivo non teneva conto di due fattori cardinali: i dispositivi di potere, analizzati in modo articolato nel corso della storia moderna; il modo in cui la cultura sociale interagisce con l’azione dei poteri all’interno del sistema capitalistico e della sua evoluzione degenerativa commerciale. Peraltro lo stesso lavoro di Lohse a un certo punto sembra indulgere alla spettacolarità della gradevolezza in modo predominante rispetto al controllo del ruolo esercitato da forme e colori, cittadini di quell’universo. Un lavoro pittorico che ci fa riflettere su questioni di tale portata è una risorsa preziosa. Ci indica inoltre come l’azione artistica sia sempre anche politica e che non ci sia bisogno di scimmiottare o ruffianeggiare o utilizzare pretestuosamente elementi tratti dalla vita sociale per costruire la dimensione politica dell’arte e nell’arte. Quando, per esempio, l’artista o sedicente tale prepara il risotto per chi approda a una costa, o defeca una banconota precedentemente ingerita e ci dice che sta facendo arte politica, noi sappiamo che esistono esperienze poeticamente e linguisticamente strutturate in modo da offrirci realtà realmente ricche oltre che utili. Lo stesso vale quando la produzione del passato viene ricopiata male da operatori che ammiccano pretestuosamente una affiliazione a tradizioni trascorse.
A proposito di struttura linguistica, il lavoro di Richard Paul Lohse ha una importanza specifica. Egli vive l’astrazione pittorica come il luogo, direi la geografia semantica, all’interno della quale la modulazione dei campi cromatici è paritaria e genera un linguaggio autonomo democratico. In mostra abbiamo alcune testimonianze della fase in cui la sua pittura dialoga con le esperienze concretiste russe e vediamo tre bellissimi quadri nei quali l’artista sviluppa diagonali, rettangoli, fughe dinamiche nello spazio della superficie. Dopo questa fase, la forma utilizzata si circoscrive al quadrato e al rettangolo, i colori vengono scelti evitando una gerarchia e la articolazione cromatica delle forme genera un linguaggio ogni componente del quale ha pari dignità e ruolo ed eccoci al momento in cui il meccanismo percettivo descritto dalle parole di Szeemann citate sopra vuole essere una forma di benessere ugualitario e democratico. È poi importante la specificità di questo progetto pittorico. Viene in mente, tra gli artisti che hanno praticato l’astrazione all’interno della storia dell’arte elvetica, la distanza del lavoro di Verena Loewensberg o quello di Sophie Taeuber-Arp. Lo è anche rispetto a tradizioni diverse, per esempio in Italia dove il razionalismo e l’astrazione hanno conosciuto espressioni di grande interesse. Se pensiamo a un lavoro molto radicato nell’esperienza politica come quello di Mario Nigro, apprezziamo la complementarietà dei due approcci. Mentre Lohse attraverso l’astrazione vuole costruire un mondo nuovo di pacificato equilibrio, Mario Nigro astrae per sintesi formalistica il dramma della storia, la faglia che rappresenta la discontinuità drammatica della vita sociale nel tempo.
Abbiamo potuto accennare solo ad alcuni motivi di interesse di questo lavoro. Auguriamoci che il pubblico possa beneficiarne perché riflettere sulla fecondità e sui limiti del modernismo e di questa sua specificità è cruciale per leggere il mondo e per cercare di viverlo, anche in modo lirico come fece Jacques Tati con i suoi due film Mon Oncle e Play Time.