laR+ la recensione

Un tentativo abbastanza generoso e ostinato

Due i compiti di Gunn in questo nuovo ‘Superman’: restituire leggerezza al genere e rendere credibile un eroe buono. Il risultato può meritare la visione

La cosa forse migliore è il cast
(Keystone)
16 luglio 2025
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E così il disperato “all in” della Warner Bros. sta pagando. Nella più torrida estate della crisi dei fumettoni cinematografici, uno Studio reduce da una lunga serie di flop rilancia il supereroe per antonomasia, Superman, con un soft reboot affidato a uno dei pochi registi del genere capaci, come si diceva quando ancora tra le due categorie esisteva una distinzione chiara, di mettere d’accordo critica e pubblico: James Gunn.

Una sorta di Justice League metatestuale, insomma: il Superman dei registi a far volare l’Uomo d’Acciaio. E se non ce la fa nemmeno lui, devono aver pensato alla Warner, è finita per davvero.

Musica epica: con 122 milioni incassati nel primo weekend solo negli Usa, e altri 95 all’estero (217 in totale), ‘Superman’ ha segnato il miglior debutto per un film solista del personaggio. E con un budget stimato attorno ai 225 milioni, il sorpasso pare già questione di giorni. Il cinecomic insomma è riuscito ancora una volta a schivare la criptonite della noia del pubblico, e forse anche una certa disaffezione per le narrazioni eroiche e grandiose che serpeggia in un Occidente in fase di piena dismorfofobia.

Sul film non c’è, da un certo punto di vista, molto da dire: James Gunn tenta di trasfondere a quel mascellone di Superman un po’ della linfa da antieroi scanzonati dei suoi ‘Guardiani della Galassia’. Il risultato è più o meno quello di un mezzobusto che cerca di fare lo spiritoso mentre legge le previsioni del tempo: si sorride più che altro per solidarietà, e per premiare lo sforzo, l’effetto è tiepidino anche se non fastidioso.

Innumerevoli ammiccamenti all’attualità...

Quasi a scusarsi per questa patina un po’ fatua, o forse a rassicurare i critici che il cinema di supereroi può ancora essere uno specchio-della-società, la sceneggiatura dello stesso Gunn è talmente imbottita di ammiccamenti e riletture dell’attualità che a volte si corre il rischio di avere la sensazione di stare scrollando Instagram o X, più che guardare un film: c’è una guerra tra due paesi immaginari che si chiamano Boravia e Jarhanpur ma si sarebbero potuti chiamare Russolandia e Ucrainistan, Lex Luthor ha l’aspetto di Jeff Bezos e la megalomania eversiva di Elon Musk, ci sono i deepfake, le fake news, il linciaggio social, sottotrame femministe, riverberi animalisti, eco multiculturali. Manca giusto il global warming, che supponiamo si siano tenuti da parte per il sequel.

Di questa preoccupazione ad ancorare il fumettistico a un realismo un po’ appiccicoso non risente soltanto la metafisica del film, ma anche lo sviluppo dei personaggi – è senz’altro un bene che Lois Lane venga emancipata dall’originaria funzione di damigella in pericolo, ma forse non era necessario trasformarla in Tucker Carlson – ma anche la fisica: a seconda del momento e delle necessità di trama Superman è onnipotente invincibile o fragilino e nevrotico, tipo Alcaraz contro Sinner.

Queste riletture attualizzanti dovrebbero nobilitare un genere che, nonostante tutto, venendo dal fumetto ha sempre un po’ il complesso dell’infantilismo, ma a questo punto ci costringono a un bilancio: è come minimo un decennio, da ‘Capitan America: Civil War’, che il cinecomic cerca di reinventarsi come genere politico, e in quanto tale si è rivelato singolarmente innocuo.

Prendiamo la calcolatissima gaffe di James Gunn, che definendo Superman “un immigrato” ha scatenato le ire di rito della destra, che con uno di quei fiacchi calembour che chissà perché l’internet trova divertentissime ha subito ribattezzato questa nuova versione dell’Uomo di acciaio “superwoke”.

... che però riveste una funzione decorativa

La polemichetta ha probabilmente giovato al film in fase promozionale, e fornito un buon talking point a una critica che altrimenti avrebbe avuto poco da dire su questo giocattolone cinematografico, ma ‘Superman’ – perfino per gli standard della Hollywood commerciale – non si azzarda nemmeno a sfiorare la superficie del problema della migrazione, né degli altri “grandi temi” che tira spensieratamente in ballo. L’attualità ha funzione decorativa, performativa, e finisce per aderire all’infantilizzazione della nostra cultura del consumo, che pretende che anche militanza e consapevolezza vengano servite in bocconcini instagrammabili e low carb.

Fatta questa precisazione, che rende Superman un degno canto del cigno di un genere a bassissima densità, che non è mai riuscito a far coincidere cubatura e peso culturale, questo è senz’altro più simpatico e coeso di molti cinecomic recenti, con un’estetica tra kitsch e videoludico sicuramente innovativa per il personaggio.

La cosa più convincente di tutte è forse il casting: David Corenswet ha la mandibola d’ordinanza, ma porta a Clark Kent/Superman una nota scettica e dissacrante che alleggerisce tutto il film e aiuta lo spettatore a superare col sorriso certi scricchiolii di trama. Rachel Brosnahan quando la sceneggiatura non le impone irritanti tirate da talk show dà a Lois Lane vitalità autentica. Medaglia al valore per l’eroico Nicholas Hoult, che riesce quasi a far somigliare a un essere umano vero il personaggio di gran lunga scritto peggio del film, un Lex Luthor il cui unico tratto psicologico riconoscibile è essere davvero ma davvero cattivissimo.

Questo ‘Superman’ aveva a ben vedere due compiti intrinsecamente contraddittori: restituire leggerezza a un genere stanco e imbolsito, rendere credibile un eroe ottusamente buono in un’epoca di chiaroscuri morali. Gunn non riesce a fare davvero nessuna delle due cose, ma il tentativo è abbastanza generoso e ostinato da poter meritare due ore del vostro tempo.