Nel documentario Rsi, decenni di skateboard nel racconto degli skater che hanno lasciato un pezzo di sé su ogni angolo di cemento disponibile
Se ci si ferma davanti alla Coop di Molino Nuovo a Lugano, verso le sei di un pomeriggio d’estate, si sente un ronzio. Non è l’aria condizionata, né l’ennesima comitiva di turisti tedeschi in sandali tecnici: è lo sciame di skater che attraversa la città, disturbando la quiete dei palazzinari e dei neopodisti da Strava. Non a caso, una delle prime scene di ‘Skate Borders – Storie di Skater nella Svizzera italiana’ – documentario digital first Rsi, disponibile su Play Rsi, scritto da Pablo Creti, diretto da Nick Rusconi e prodotto da Andrea Sala – mostra proprio tavole che sfrecciano davanti al Palazzo dei Congressi.
Decenni di skateboard (più brevemente detto ‘skate’) nella Svizzera italiana vengono ripercorsi: dai muretti consumati e le rampe abusive, fino alla conquista di skatepark, attraverso le testimonianze di oltre cinquanta skater che hanno lasciato un pezzo di sé, e forse più di un legamento, su ogni angolo di cemento disponibile.
La scena ticinese è piena di mitologie locali in un amarcord d’immagini che ricordano i video dei Nofx degli anni 90: il ricordo del primo negozio di skate a Lugano, il fu ‘Morel’, persino la poliziotta Nicoletta Bizzozero, nemesi degli skater luganesi, compare nel racconto come guest star. Un pantheon minore che, messo insieme, diventa la controstoria di un territorio che preferisce vendersi come paradiso fiscale.
Lo skate è, forse, l’ultima attività genuinamente punk rimasta, soprattutto qui, dove il capitalismo non ha bisogno di farsi propaganda. «Lo skate ha un’attitudine all’inclusione», spiega Gilles Gallicchio, una delle voci di ‘Skate Borders’. «C’è uno sguardo che è molto più tollerante, anche verso chi tutto sommato può essere visto come un fastidio, un residuo, un emarginato. Una cosa che ho visto in pochissime discipline».
Gli skater sono sempre stati trattati come un’anomalia burocratica. «Locarno è sempre stata molto ostica nei confronti degli skater. Magari skatavi sotto un palazzo e ti tiravano una secchiata d’acqua o arrivava la polizia», ricorda Andrea Grillo. «A Bellinzona, quando è stata completata la piazza del Sole, anche lì per un breve periodo c’è stato un attimo di proibizionismo, però hanno lasciato correre quasi subito. Ora c’è una piccola skate plaza, che è stata fatta, tra virgolette, con la nostra supervisione».
Lo skate, da una parte di popolazione, viene ancora visto come un fastidio. «In realtà, ti rende parte di una famiglia. Non importa se abiti a Lugano o in Germania. Se vai in skate e vieni accolto nei nostri spazi, sei già parte del gruppo», dice Samuele Butt.
Le generazioni si susseguono nei 62 minuti di filmato – dai pionieri ai nuovi volti –, i trick si complicano fino ad arrivare al mondo del pro con Martino Cattaneo, ma la logica resta immutata. Nessun’altra pratica urbana mette insieme così tanti ossimori: individuale ma collettiva, meditativa e rumorosa, liberatoria e disciplinata.
Che la cultura skate resista è già di per sé un mistero. I grandi collettivi vengono smantellati, qui come nella vicina Milano, i centri sociali evaporano nel linguaggio istituzionale (“riqualificazione urbana”), e intanto lo skate sopravvive come una blatta. Proprio per questo, ogni skatepark è un traguardo e Mendrisio l’ha imparato sulla propria pelle. Butt parla del lavoro in prima linea: «Quando la votazione in Consiglio comunale è passata a larga maggioranza, eravamo quasi increduli ma davvero felici. Poi però è arrivato il referendum, quello è stato abbastanza una batosta. Abbiamo fatto di tutto per esprimere la nostra motivazione e difendere il nostro progetto. Ci siamo trovati a fare volantinaggio fino alle due di notte, passando di buca delle lettere in buca delle lettere, serate infinite». Dopo battaglie e assemblee, la nuova area di svago ha aperto lo scorso 5 settembre, in coincidenza con la messa in onda del documentario, e del prossimo weekend dei Warriors (Lugano, 11-14 settembre) e il Graffiskate Locarno (27-28 settembre).
Creti registra una specie di slittamento sottile da gesto anarchico a disciplina olimpionica, da rampe improvvisate a strutture a norma. Gallicchio lo riconosce: «Una volta aveva quasi più il sapore di un’occupazione degli spazi pubblici. C’era frizione con la gente, con i poliziotti: una situazione che ti costringeva a sviluppare una postura dialogica, da apprendere crescendo, e che oggi si è tendenzialmente appiattita». Poi continua: «Sono contento che abbiano fatto gli skatepark, ora anche a Mendrisio: lì puoi esercitarti ed è un punto d’incontro. Ma in qualche modo vai a rinchiudere un’attività e a recintare uno spazio che dovrebbe essere più libero. Quando ero ragazzo il nostro punto d’incontro era piazza Indipendenza: non avevo il telefono, ma sapevo che lì avrei trovato qualcuno. Oggi quella libertà non esiste più: ogni cosa dev’essere etichettata».
Lo skate richiede tempo, tentativi, fallimenti. «Manca il ricambio generazionale», conferma Grillo. «I ragazzi più giovani mollano più facilmente. Forse è dovuto al fatto che lo skate è provare e rialzarsi e spesso la nuova generazione ha bisogno di stimoli di successo più immediato». In effetti non tutti muoiono dalla voglia di rischiare di slogarsi una caviglia per imparare un rock to fakie come Jana De Cristophoris, una delle poche ragazze della scena ticinese e al tempo stesso una delle sue nuove reclute. «Lo skate non è uno sport da uomini o da donne, nel senso che non c’è un sesso prediletto. Io vorrei ci fossero più ragazze. Le vedo, quelle che vorrebbero provare, ma hanno paura. Se ce ne fossero di più, ne arriverebbero tante altre: questo è il mio augurio». Serve del fegato, una piccola dose di sana incoscienza, e – come dicono – «tanto tempo, impegno, perseveranza». Ma, tutti sono d’accordo, lo skate è ciclico e, aggiunge Butt: «Con il nuovo skatepark si avvicineranno in tanti. E tanti ritorneranno».