Ci vive il popolo dell'Eurovision, pacifici ultrà da curva calcistica armati di sola fratellanza. Con tutto quel che accade fuori, fino a quando reggerà?
Non devi essere australiano per tifare Australia, puoi pure essere di Basilea centro: bastano del tulle fucsia e una cannuccia dentro un bicchiere di milkshake preso da Starbucks, incollato a un cerchietto per capelli. Vestito così puoi cantare ‘Milkshake Man’ come se fossi nato e residente a Sydney, e poco conta se l’Australia verrà eliminata in semifinale: nessuno ti vieterà mai di sentirti australiano per tutta la settimana. È questo il popolo dell’Eurovision Song Contest (Esc), un fiume di gente mediamente per bene senza fermate né confini, come direbbe il poeta, con i suoi must – glitter e paillette – e un carnevalesco senso dello stare insieme, che nella città del Carnevale per eccellenza ha funzionato dalla cerimonia d’apertura sino alla fine.
Il fan medio dell’Esc è una specie di pacifico ultrà da curva calcistica privato però dell’istinto di menare le mani e dotato di quella rara qualità che è fare festa con l’avversario se questi prende più ‘douze points’ di te. Il fan medio dell’Esc è un appassionato di musica che di musica potrebbe pure non sapere nulla, e non è un problema perché non tutti coloro che frequentano i musei dipingono, non tutti quelli che vanno a teatro recitano, non tutti quelli che vanno all’Eurovision debbono per forza saper suonare uno strumento. Anche perché oggi per fare musica non è richiesto di saper suonare uno strumento. Con le sue regole definite e immutabili, e con le sue derive kitsch (ma non trash, a quelle ci pensa la tv italiana), l’Eurovision è una bolla dentro la quale il tempo è indefinito, dove l’arena è tutte le arene e anche le canzoni, salvo rare eccezioni, sono tutte le canzoni, interscambiabili di edizione in edizione. Se anche fuori dall’arena cadesse la neve assassina de L’Eternauta, nella bolla dell’Eurovision la festa continuerebbe, come le navi che affondano mentre tutti ballano. E forse va bene così.
Non siamo esperti di politica estera e già è difficile capire le politiche di una manifestazione in cui la musica è preregistrata e che per due sere di fila impone agli artisti esibizioni senza modifiche scenografiche e coreografiche, che tanto varrebbe mandare dei videoclip. Ma forse nemmeno ci vuole una laurea in storia per dire che potrebbe esistere un conflitto d’interessi tra la presenza di Israele al concorso e il main sponsor israeliano dal nome che allude al Marocco. Insieme all’atavico divieto di veicolare messaggi politici nelle canzoni, l’instabilità della bolla di quest’anno ha portato, nella finale, a chiudere il microfono ai cantanti subito dopo l’esibizione per la paura di prese di posizione pro-Gaza. A fine pezzo, il labiale dei “grazie” e dei “danke” di Italia e Germania pareva la comunicazione fra pesci rossi nella boccia di vetro. Nemmeno si è visto il supervisore esecutivo dell’Esc, che sempre si era preso la scena per proclamare il ‘Good to go’ (la cerimonia del voto), defilatosi quest’anno forse perché memore dei fischi ricevuti nel 2024, quando l’Esc mise all’indice lo svedese Eric Saade che, fuori concorso a Malmö, cantò con una kefiah al polso, regalatagli in gioventù dal padre palestinese.
Per quanto visto a Basilea, e per come vanno le cose nel mondo, l’anno prossimo la bolla potrebbe non reggere. All’Esc non resterebbe che la differita, come succede agli Oscar, preoccupati che qualcuno possa mandare a quel paese Donald Trump in mondovisione, là dove il regista Michael Moore aveva mandato anni fa George W. Bush, regalando un momento di indimenticabile televisione (Michael Moore: douze points).
Keystone
‘The shake is not a drink, it’s a state of mind’