‘Carismatica e poliedrica’, voce dell’Iran che le brilla negli occhi, è tornata nella sua Locarno, con una ‘melancolia vestita di gioia’
«Credo che la prima volta fosse il 2010. Ero piccolina!». Sorride Golshifteh Farahani, che nell’albergo sulla collina passa da una telecamera a un taccuino, per incontri di rito che ben conosce. «Mi ricordo di questo hotel perfettamente. Locarno è un festival coraggioso, che osa. Quando mi hanno detto che avrei ricevuto un premio mi sono sentita onorata, ma anche felice per poter tornare in questo posto». Nel 2010 faceva parte della giuria presieduta da Erik Khoo, ma nel 2017 a Locarno ci sarebbe tornata da attrice, nel film ‘The Song of Scorpion’ al fianco dell’attore indiano Irrfan Khan. «Irrfan non è più con noi, il mio ricordo va a lui». A lui e a un posto, Locarno, che di ricordi pulsa: «Un paio di anni fa ho vissuto un momento difficile. Ho lasciato l’Iran da tanto tempo ma ogni volta vi torno, anche se non fisicamente, perché è dentro di me. Ho lavorato tanto per ritrovare un posto nel mondo, mi sono sentita a lungo sospesa nell’aria, in cerca di un atterraggio. Tornare a Locarno mi permette di riconnettermi, è una sorta di nostalgia, di melancolia riempita di gioia, una tristezza molto segreta. E adoro la pantera…». Il leopardo? «Sì, il leopardo, l’animale africano che preferisco. Ci sono leopardi in Svizzera?». Ci sono i lupi. «Di certo ci saranno dei gatti, gatti molto grandi».
È un gatto molto grande l’Excellence Award Davide Campari, conferito quest’anno all’attrice (e cantautrice) franco-iraniana, che in tempi recenti è stata la Azar Nafisi di ‘Leggere Lolita a Teheran’ e ancor più recenti la mamma di Alpha in ‘Alpha’ di Julia Ducournau, film che il pubblico del GranRex vedrà oggi alle 14. “Carismatica e poliedrica” (Giona A. Nazzaro, dalla motivazione del premio), Farahani è in tanti altri ruoli tra il cinema d’autore (Jarmusch, Joffé, Farhadi, Garrel) e i blockbuster, su tutti due Ridley Scott di cui un ‘Pirati dei Caraibi’. Le elenchiamo i nomi di chi ha ricevuto l’Excellence Award, altre “personalità artistiche che con il loro contributo hanno segnato il cinema contemporaneo”, e ai nomi di Susan Sarandon, Angelica Houston, Charlotte Rampling e Isabelle Huppert la risposta è la seguente: «Sono umile davanti a ciò che mi viene concesso, non considero il premio per me, non ne sento la proprietà. Lo vedo come il riconoscimento di un collettivo, di noi tutti che celebriamo il cinema. Lo ritiro io, simbolicamente, in nome e per conto dell’arte, della cultura e della gente della Piazza Grande, testimoni di un mondo fatto a pezzi dalla politica. Arte e cultura sono la forza che ancora può unirci tutti».
È del 2023 il Pardo d’Oro a ‘Critical Zone’, film iraniano-tedesco che mise d’accordo tutti. È di quest’anno la Palma d’Oro a ‘Un semplice incidente’ di Jafar Panahi, che la Piazza Grande vedrà a Ferragosto. «È un onore per noi iraniani vedere premiati registi come Jafar, come Mohammad Rasoulof», dice Farahani, «sono amici molto cari, quando ancora vivevo in Iran facevamo festa insieme. Jafar è il più ostinato di tutti, è rientrato in patria, noi nel frattempo continuiamo ad aprire le braccia a ognuno degli esiliati che cercano libertà». Perché «i regimi vanno e vengono, a restare sono cinema, musica, arte, cultura. La politica è mortale, arte e cultura sono senza tempo». Anche Panahi e Rasoulof sono senza tempo, parte dell’immortalità dell’Iran «come Abbas Kiarostami, che non è mai morto. È con noi con ognuna delle tracce lasciate nel mondo».
L’Award parla di “generosità d’artista”, oltre che di talento, e con tutto il rispetto per quest’ultimo, l’estrema diversificazione nella sua filmografia (lunghissima per la giovane età) conferma la definizione. «Sono io a cercare i film e i film a cercare me, sono entrambe le cose, io credo. Non mi spaventano le lingue che non conosco, i limiti significano poco per me». Ha riflettuto sui 67 progetti che compongono la sua carriera fuori dall’Iran («Di tanto in tanto li conto») e si è resa conto che solo ‘Leggere Lolita a Teheran’ è ambientato in Iran. «Ma l’Iran torna sempre, in tutto quello che ho fatto. Torna in ‘Alpha’, che è un film completamente francese, torna con Jim Jarmusch (‘Paterson’, 2016, ndr), in ‘Tyler Rake’, tutti film con dentro questioni che portano a un Paese relativamente al quale il resto del mondo non è al corrente di quel che lì accade davvero. Mi sento obbligata a essere una traduttrice di verità, perché la propaganda è menzogna». Non la infastidisce, dunque, se il discorso dal cinema rischia sempre di tornare al destino di un Paese, il suo, «in prima istanza perché nelle scelte artistiche non mi sento incasellata, e poi perché mi sento libera di parlarne».
Ama le storie e i registi, Golshifteh Farahani, sceglie i film in base a quelli. L’avere recitato in molte opere prime è un altro segno di generosità, qui intesa come intuizione. «A volte nemmeno leggo la sceneggiatura, semplicemente sento di dover fare quel film. È il suo messaggio, sono gli aneddoti, le metafore. In ‘Alpha’, per esempio, ad avermi catturato è il trauma transgenerazionale per il quale da sempre mi batto. Non conoscevo Julia Ducournau, la sceneggiatura mi è stata spedita dai suoi agenti, io ero in Canada, non avevo tempo di leggere; quando mi hanno detto che avrebbero dato la parte a qualcun altro mi sono decisa a leggere, perché insistevano che era importante. E ne sono rimasta affascinata. Credo che ‘Alpha’ sia uno dei regali più belli che io abbia ricevuto, è Julia ad avermelo donato».
‘Leggere Lolita a Teheran’, invece, le ha permesso di vivere una rivoluzione non vissuta, per semplici questioni d’età. «Ho esitato, mi sono bloccata davanti alla telecamera, non sapevo come avrei potuto parlare la mia lingua natale, il farsi, perché ero fuggita e volevo essere libera. E invece quel film è stato una delle cose più deliziose della mia carriera, e mi ha aperto alla mia lingua. Quando parlo in francese e inglese è come se parlassi in un telefono a filo; quando recito in farsi è bluetooth, senza sforzo, è download». Cita i telefoni a disco, quelli dove serviva mettere il dito sul numero, ante-rivoluzione (digitale).
“L’emancipazione femminile non si può arrestare”, diceva Farahani nei giorni della promozione di ‘Leggere Lolita a Teheran’, “è come acqua che scorre e fuoco che brucia”. Le chiediamo quando si realizzerà: «Parlerei di emancipazione dell’umanità, perché la donna è l’umanità, senza separazione. Quella frase viene da una poesia iraniana. Fintanto che la libertà non c’è, il fuoco non può far altro che bruciare, l’acqua non può far altro che scorrere, e gli uomini continuare a battersi per la libertà». Farahani dice che molta della forza di questa ribellione si deve alle donne di una certa età, che hanno vissuto l’imprigionamento psicologico, sociale, ma non vuole separare donne e uomini. «Oggi è soprattutto la gioventù ad avvicinarsi alla libertà. Per quanto i politici si arroghino di decidere dei diritti dell’umanità, credo che la coscienza collettiva non lo permetterà, perché la libertà è il senso stesso dell’umanità».