laR+ fuori dal film

Una timidezza bianca e nera

I cento passi di Michele Dell’Ambrogio sul palco di Piazza Grande (e al ricevimento del Gran Consiglio)

16 agosto 2025
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La mano in tasca, il cappello di paglia, la camicia bianca, a eccitare la gioia mal trattenuta, le gambe fini, e soprattutto la sua andatura, lievemente a zig zag, come se la via diritta fosse un sentiero selvaggio, Michele Dell’Ambrogio ha percorso i cento passi che dai circoli del cinema lo dividevano dal palco della piazza più dronata del cinema. Il palco di Juliette Binoche, Isabelle Huppert, di Wim Wenders, Aki Kaurismäki, e che avrebbe accolto Roman Polanski, se solo certi consiglieri avessero adottato la buona abitudine di svegliarsi con la rassegna stampa di Rete due e non con le campane di Bigottenland. Mercoledì è stato il suo giorno, quello dei riflettori, ma anche l’occasione della resa dei conti. Perché il premio locarnese può far schizzare l’ego in un buco nero, oppure farlo flottare tra entusiasmo e inadeguatezza. Quei cento passi li ha percorsi molleggiando, la mano libera che rispondeva ai saluti di chi per mezzo secolo ha bevuto dalla sua sete di cinema, e intimidito, perché essere un corpo estraneo è sempre stata una scelta, ma anche un colpo di fortuna. Michele Dell’Ambrogio, detto Mich, ha sfoggiato, nel corso di questo suo giorno 13, le tre principali manifestazioni fenomeniche della riservatezza: alle quattro, al cinema Rex, ha parlato di sé a lungo, come un fiume di pioggia, senza dire IO. Si è nascosto nell’opera di Jean Vigo, componendo negli occhi degli spettatori, e di un direttore artistico ammaliato eppure spesso convinto di aver smarrito l’orologio da polso, una connessione interstellare. Il bianco e nero de L’Atalante è diventato il suo modo di navigare la vita, come i due sposini del film lungo la Senna, ma soprattutto come Michel Simon, che interpreta un marinaio grottesco, rude, femminile, con il cuore di chi è contro, il sangue di chi si sa commuovere.

Alle 18, nel chiostro della magistrale, casto nella casta, la sua voce si è fatta gatto, ha parlato dal vano sotto l’armadio, davanti a un pubblico di parlamentari regionali ebbri di sé, lustri, con le mogli dai tanga che si indovinavano sotto l’abitino chiaro. Convinti di essere loro, soltanto loro, i dei ex machina del Festival internazionale, senza barriere di partito, confusi e felici, leghisti socialisti liberisti. La cultura, i quesiti del nostro tempo, il premio a una carriera, trattati come la colonna soft di un sonoro che è sempre e solo il loro. E infine la Piazza Grande, alla fine dei cento passi. Michele Dell’Ambrogio ha respirato forte, dimenticando quasi di ritirare il santo graal, e ha intonato la sua venticinquesima ora. Come Spike Lee, che pur odiando ogni angolo di New York, ne è innamorato, Mich ha chiesto a Locarno di avere irremovibili valori e poche certezze. Lo ha detto dondolandosi, il cappello che assecondava l’onda verticale, inseguendo un diritto di critica così strano, quando tutto è agghindato per essere brillante. Ha allora raggiunto le scale troppo alte, le ha discese, per fare la sola cosa che lo racconta davvero. Sedersi in mezzo a tutti, sperare che il film della sera non sia troppo pop.