Le parole possono essere una gabbia, oppure una via di fuga, dagli altri o da sé stessi
“Vecchio idiota”. Queste le memorabili parole d’affetto con cui la moglie, indomabile e logorroica, accoglie il protagonista di ‘Nebraska’ di Alexander Payne dopo il suo ennesimo tentativo di andare a riscuotere una inesistente vincita alla lotteria. Avrebbe potuto dirgli finalmente tesoro, amore mio, ti amo. Ma non lo ha fatto, come probabilmente non lo ha mai fatto in decenni di matrimonio. In modo analogo lui, il vecchio confuso, non aveva saputo rispondere alle domande esistenziali del figlio. Perché ti sei sposato? “Perché no?”. Come avete deciso di avere dei figli? “Deciso?! A me piaceva scopare, lei era cattolica: fai uno più uno”.
Eppure, a quel punto, quando raccolgono di nuovo per strada il “vecchio idiota”, tu spettatore lo sai che fra quei due un legame misterioso e inattaccabile c’è. Lo hai percepito nella furia con cui lei lo difende dalle miserie del mondo che lo circonda e che vuole approfittare di lui, la stessa con cui peraltro ogni giorno lo investe di improperi. Il fatto è che la profondità di quel sentimento non può essere né compresa né verbalizzata. Si sottrae al nostro tentativo, svilente, di tradurla in parola, di infiorarla con quelle parole ridondanti e oscene – “cuore”, “amore”, “ti amo” – che costellano la nostra quotidianità, inabili come noi a coglierne il senso più autentico.
Al di là del Pacifico, in tutt’altra realtà e cultura, la protagonista di ‘Tabi to Hibi’ (film giapponese candidato al Pardo d’Oro) a un certo punto si chiede se viaggiare non significhi proprio fuggire dalle parole. Proprio lei che è una sceneggiatrice e traduce per lavoro le immagini in movimento nella sua mente in parola, prima che tornino a trasfigurarsi in immagine sullo schermo. E che si sente prigioniera di “una gabbia di parole”. Forse per questo si avvia verso un altrove innevato, affidandosi al proprio sguardo. Ed è proprio quando riesce a vedersi da lontano, per un istante, con lucidità densa di suggestione, nel silenzio più assoluto, che il suo mondo immaginario diventa realtà.
Le parole possono essere una gabbia, oppure una via di fuga, dagli altri o da sé stessi. Meno chiacchiere, più silenzio “vecchio idiota”. (Me lo dico con un certo affetto, scevro da retorica).