laR+ L’intervista

Jafar Panahi: ‘Mi puniranno ancora, è una questione di tempo’

Una Palma d’Oro può essere d'aiuto, ma solo nell’immediato. A colloquio con il regista iraniano, a Locarno con il film che ha vinto a Cannes

Ieri la Piazza Grande ha visto ‘Un simple accident’
(Locarno Film Festival / Ti-Press)
16 agosto 2025
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Passa Bertoglio, uno che ha visto più film di Alfredo, il proiezionista del Cinema Paradiso. Dice: “È bellissimo, pare ‘Italian Secret Service’”, storia di tale Natalino Tartufato che accetta una somma di denaro dai servizi segreti americani per far fuori una spia neonazista in giro per Roma. Ma Tartufato non ha la stoffa del sicario e passa la palla ad altri, che non hanno la stoffa dei sicari. ‘Un semplice incidente’ di Jafar Panahi, Palma d’O ro 2025, ha anch’esso i muri portanti della commedia e al suo interno concetti pesanti come il calcestruzzo. Piazza Grande l’ha applaudito ieri, le sale lo vedranno quando in Italia si decideranno a fissarne l’uscita. È il primo film del regista iraniano da uomo libero. «Cosa intende lei per ‘uomo libero’?», ci chiede Panahi, in risposta alla nostra constatazione. Luglio 2022. “Con incredulità e sgomento assistiamo a un nuovo, violentissimo attacco alla libertà d’espressione da parte del governo iraniano contro il cinema. La repressione della comunità cinematografica iraniana continua, in sfacciato disprezzo delle numerose voci di protesta provenienti dalla comunità internazionale”. Lo scriveva nell’estate di tre anni fa il Locarno Film Festival che – così come appena fatto da Cannes, Venezia e Berlino – chiedeva “l’immediata scarcerazione dei registi arrestati e la fine di ogni forma d’intimidazione e violenza contro registi, artisti, intellettuali e creativi”. Pardo d’Oro nel 1997 a Locarno per ‘The Mirror’, a Panahi era toccata la stessa sorte di Mohammad Rasoulof e Mostafa Aleahmad, arrestati e imprigionati poco prima per avere protestato contro le violenze perpetrate dal regime sui civili iraniani. La vicenda di Panahi, che fu una specie di Leitmotiv di Locarno75, si concluse nel febbraio del 2023 quando il regista, rinchiuso nel carcere di Evin, iniziò uno sciopero della fame. Durante la sua detenzione, Teheran era scesa in piazza per protestare contro l’uccisione in carcere di Mahsa Amini.

“Nessuno può dirci cosa fare e cosa non fare”, le parole di Panahi da Cannes in maggio, Palma d’oro in mano un anno dopo il Premio speciale della giuria attribuito a Mohammad Rasoulof per ‘Il seme del fico sacro’, Rasoulof che ha scelto la Germania dopo una fuga rocambolesca dall’Iran. “La vittoria di Panahi è un colpo inaspettato alla macchina repressiva della Repubblica Islamica”, scriveva il collega a premio consegnato. ‘Un semplice incidente’ è arrivato dopo i sei anni di prigione comminati nel 2010 a Panahi per “propaganda contro il governo”, i vent’anni di divieto di dirigere film o scrivere sceneggiature, di lasciare il Paese tranne che per cure mediche (o per andare a pregare alla Mecca) e rilasciare interviste a chiunque. Nel 2011 un hard disk contenente il video-diario ‘This Is Not a Film’ veniva fatto uscire dall’Iran dentro una torta e recapitato a Cannes, nel 2015 Berlino gli attribuiva l’Orso d’oro per ‘Taxi Teheran’, girato in clandestinità, Venezia il Leone d’Oro del Duemila per ‘Il cerchio’, ritirato a nome suo dall’attrice Baran Rasoulof. Nel 2022 ‘Gli orsi non esistono’, con Panahi atteso a Venezia prima dell’ultimo arresto. Per sommi capi, gli ultimi quindici anni di chi non si è mai arreso.

Jafar Panahi, le sue condanne sono state annullate: cambia qualcosa nella sua vita?

No, le condizioni non sono cambiate, sia quelle più generali, di vita, che quelle per fare apertamente, legalmente i film che voglio fare. Da un punto di vista pratico, mi ritrovo a girare i film esattamente come facevo prima, dunque nella totale clandestinità. E questo venire da me del regime per elencarmi tutte le proibizioni cui dovrei sottostare e vedermele improvvisamente togliere fa sì che nulla cambi. Anzi, da un lato è più difficile fare il mio lavoro, perché sono molto più facilmente criticabile: ora che potrei chiedere i permessi per girare i film, io continuo a non chiederli e passo per colui che rifiuta di approfittare di questa ‘grande libertà’ concessami. Il mio rifiuto altro non fa che far sentire il regime in diritto di mettermi nuovamente i bastoni tra le ruote. Il fatto è che io non ho alcuna intenzione di chiedere permessi e nessun bisogno di farlo, e mai li chiederò. Vengo dunque alla definizione di ‘uomo libero’ di cui parlavamo all’inizio: fintanto che al governo rimane un regime di questo tipo, non ha senso parlare di libertà.

La vittoria di una Palma d’Oro, in questo senso, aumenta il rischio di ritorsione per chi come lei ha scelto di rientrare in Iran o può servire da scudo?

Premetto che sin dal mio arrivo a Cannes ho annunciato pubblicamente che sarei tornato in Iran all’indomani del Festival, qualsiasi fosse stato l’esito. L’ho ripetuto durante le interviste, è stato un punto sul quale ho continuato a insistere. Certo, quando il mondo del cinema ti attribuisce un riconoscimento di quel tipo, il premio crea una sorta di protezione, anche perché il regime ha visto la folla che mi ha accolto al mio rientro, all’aeroporto di Teheran, e avrà visto tutti coloro che sono venuti a complimentarsi con me nelle ore e nei giorni successivi, e in quei frangenti il regime nulla può fare. Il regime è perfettamente conscio che quando io torno in Iran l’attenzione mediatica internazionale è puntata su di me, sa che i giornalisti sono attenti a quel che mi succede ogni volta che torno, e anche questo si aggiunge a questa specie di accresciuto livello di protezione. Il regime deve fare i conti con l’idea di punirmi adesso o più avanti, soluzione che, nel secondo caso, comporterebbe un costo minore quanto a perdita di immagine da parte loro.

Sono certo che un giorno mi mostreranno la loro reazione, sono sicuro che mi puniranno prima o poi. Hanno già iniziato in verità, come fanno sempre, distruggendo la mia reputazione come cineasta e quella del film che ha vinto a Cannes, si spendono nel dire che non ho alcuna idea su come si faccia un film, mettono in risalto la singola critica negativa, stroncante, come se quelle positive nemmeno esistessero. Questa macchina del fango è attiva non solo nei miei confronti o verso tutta la gente del cinema, bensì verso chiunque goda di un successo, di una vittoria avvenuta per merito proprio, senza che il vittorioso rappresenti il regime o dimostri, direttamente o indirettamente, di essere dalla sua parte.

Perché allora non lasciare l’Iran? Per cambiare le cose da dentro?

Nulla di tutto questo. Molto semplicemente perché io non ho la capacità di vivere altrove, non riesco ad adattarmi ad altri Paesi, ad altre culture e altri modi di vita. Forse è semplicemente una mancanza personale, mentre esistono molti bravissimi registi iraniani che si sono trovati a confrontarsi con l’esilio involontario e hanno dovuto trovare il modo di adattarsi in altre situazioni, luoghi, circostanze, e sono riusciti ad andare avanti. Tengo a specificare che la mia è solo una constatazione, non sto giudicando nessuno, non intendo dire che la mia scelta sia migliore della loro. Non esiste decisione giusta e sbagliata, è solo ed esclusivamente che io non riesco a vivere altrove.

Nel film è distribuita con regolarità tutta una serie di crimini commessi dal presunto carceriere tenuto in ostaggio. Alcuni di questi atti spezzano i momenti di ilarità, altri vi si integrano, quasi contribuendo alla comicità nelle scene all’interno del furgone. Per ricchezza di particolari, non si fa fatica a pensare che si tratti di fatti realmente accaduti...

Sì, assolutamente. Nei sette, otto mesi dell’ultima mia detenzione ho ascoltato tante storie, molte da prigionieri che hanno avuto sentenze ben più lunghe delle mie, persone che sono fatte fino a dieci anni, altre le cui condanne sono state più brevi, ma quello che è accaduto loro non è meno cruento. Ho combinato molte storie vere, facendomi aiutare in particolare, per alcuni dialoghi cui era richiesta particolare veridicità, da una persona che ha passato anch’ella tanto tempo in prigione. Questa persona, tra l’altro, è già tornata in carcere, ed è accreditata nei titoli. Ho avuto la fortuna che durante le riprese si trovasse ancora in libertà e le ho chiesto la cortesia di assistere alle riprese di una scena specifica, e di aiutarci a renderla il più realistica possibile. Ho chiesto come si sarebbe comportato il presunto torturatore legato a un albero e la persona che ci ha aiutato ci ha suggerito come e quando farlo ridere in modo isterico, quando doveva risultare manipolatorio, quando doveva incutere paura. L’aiuto è stato cruciale.

Poniamo anche a lei la domanda ‘chiamataci’ da Golshifteh Farahani, che nell’intervista concessaci nei giorni scorsi disse di vedere il proprio lavoro di attrice come quello di una ‘traduttrice della verità’. Mohammad Rasoulof si è definito uno specchio della società: lei ha una definizione del suo lavoro?

Il mio fare cinema è quello di una persona che ha cercato in tutti modi di non censurarsi, di mostrare quel che viveva e di essere sé stesso, e la lotta per rimanere me stesso è molto, molto complicata, perché nel mio essere da solo, in quanto regista e persona, non smetto mai di chiedermi se sono soddisfatto del lavoro che ho fatto. Credo di poter dire con tutto il coraggio che ho in corpo che non rimpiango nulla, e non mi vergogno di nessuno dei film che ho fatto.

‘Un semplice incidente’ non ha musica. Il tema musicale del film, se così si può dire, è un rumore, che per non svelare nulla chiameremo ‘rumore’ e basta. Lei ci lascia nel dubbio, come spesso accade alla fine dei suoi film. Ci concede di sperare che quel rumore porti a qualcosa di buono?

Nella scena di cui dice io voglio far scaturire un sentimento e far sì che il pubblico si domandi se si tratti di un rumore vero o uno immaginario. Se è un rumore vero, sicuramente c’è una speranza, perché è un rumore che si allontana, che è venuto e se ne va. Se il rumore invece è immaginario, torniamo all’inizio del film, al fatto che sappiamo che questo rumore sarà sempre nelle orecchie di Vahid e di tanti altri. Volevo lasciare lo spazio per una risposta: il pubblico può riempirlo.