laR+ Locarno Film Festival

Nei bambini si trova la forza di restare umani

Intervista a Abbas Fahdel, Pardo per la miglior regia per il documentario ‘Tales of the Wounded Land’

17 agosto 2025
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«Questo film nasce dall’urgenza di raccontare una guerra che ha distrutto le nostre case e le nostre vite, e di mostrare come, nonostante tutto, tra le macerie fioriscano umanità e resilienza». Dopo ‘Tales of the Purple House’, presentato due anni fa al Festival di Locarno, Abbas Fahdel ha realizzato un nuovo e potente ritratto del dramma che da tempo attraversa il Libano. ‘Tales of the Wounded Land’, vincitore del Pardo per la miglior regia, ripercorre l’ultimo anno e mezzo di conflitto, partendo dalla distruzione della propria casa per restituire il volto più quotidiano e intimo della guerra. «Non è un film di guerra, ma un racconto dall’interno della guerra: volevo mostrare ciò che lascia dietro di sé».

Quando avete capito che quelle immagini sarebbero diventate un film?

Quando sono iniziate le prime esplosioni vicino al nostro villaggio, a venti chilometri dal confine israeliano, ho iniziato a filmare senza avere un’idea precisa, solo per documentare. Pensavamo che la guerra sarebbe durata qualche giorno, ma si è estesa per quindici mesi. Ho raccolto molto materiale e, lentamente, il film ha preso forma nella mia mente. Mi è bastato seguire gli eventi: i primi bombardamenti, lo sfollamento, il ritorno. Quando siamo rientrati, il progetto era già chiaro.

Come si fa a trovare la giusta distanza per raccontare la guerra?

La macchina da presa mi protegge. Quando filmo, dimentico il pericolo: è una sorta di magia che tutela me e chi si trova davanti all’obiettivo. L’ho già vissuto in ‘Home Alone: Iraq Year Zero’ del 2015: filmare mi ha aiutato a non cedere alla paura. Concentrarmi sull’inquadratura, sul suono, mi trasformava in uno spettatore della mia stessa realtà. È stato un modo per creare distanza, per proteggermi. Il momento più difficile è stato il ritorno, nella distruzione. Ho inserito nel film le voci dei megafoni che ogni giorno, nei villaggi, annunciano nuove cerimonie per i martiri. Ma ho scelto di non filmare il dolore delle persone. A quelle cerimonie ci sono andato, ma non ho usato la camera. Per me, non tutto è filmabile. Di fronte alla sofferenza, alla morte, alle lacrime, serve pudore. Ho ripreso solo quando le persone avevano superato l’impatto iniziale. Credo nell’intelligenza dello spettatore. Detesto il cinema che impone l’emozione, con la musica drammatica che ti dice quando piangere. Nel mio film non c’è musica. Mai. Anche nel documentario sull’Iraq, dove racconto la morte di diverse persone, incluso mio nipote di due anni, non ho mostrato nulla. Perché la morte è oscena. Non si può filmare. E oggi, purtroppo, è ovunque: ogni bomba ha il suo video, ogni tragedia il suo frammento virale. Io non voglio fare lo stesso. Anche quando mostro edifici che esplodono, so che dentro c’erano delle persone. Ma scelgo di non mostrarle. Lascio allo spettatore la libertà e la responsabilità di immaginare.

Nel film c’è un forte contrasto tra l’innocenza dell’infanzia e l’orrore della guerra. Può parlarcene?

Trovo molto forte il contrasto tra lo sguardo dell’infanzia e l’orrore della guerra. Anche in questo film, al centro c’è mia figlia. Ho vissuto parte di quel conflitto attraverso i suoi occhi. A proteggermi non è stata solo la macchina da presa, ma anche la sua innocenza, la sua vitalità, la sua capacità di resistere. Ho capito che anche i bambini ci proteggono. Li ho visti giocare tra le macerie, disegnare tra le rovine. Il pericolo, la morte, sembrano non toccarli, o forse riescono a respingerli con una forza e una resilienza che noi adulti non abbiamo più. Senza questa capacità, i bambini resterebbero segnati per sempre. E forse anche noi.

C’è stato qualcosa che non siete riusciti a filmare?

La parte peggiore non è stata filmata. In sessantasei giorni di riprese non siamo riusciti a documentare tutto. Penso, ad esempio, alla fuga in auto insieme a un milione di persone: dieci ore nel caos, con le bombe che cadevano vicino a noi. Quelle immagini, quelle emozioni, sono ancora più forti di ciò che si vede nel film. In quei momenti, l’unico obiettivo era sopravvivere, tenere insieme i pezzi. E ancora oggi Israele continua a bombardare. Ogni giorno viviamo situazioni di pericolo, con i droni che sorvolano le nostre teste. Alla fine, paradossalmente, filmare è stata quasi la parte più semplice.

Come vede il futuro?

La ricostruzione non è nemmeno cominciata: i costi sono insostenibili e lo Stato è completamente assente. Il governo libanese sembra vivere su un altro pianeta, mentre persino l’esercito fatica a pagare gli stipendi. Noi siamo riusciti a sistemare la nostra casa con mezzi propri, ma il prezzo è stato altissimo. Molte famiglie, invece, non possono permetterselo: sono ancora sfollate. Pochi giorni fa, cinque soldati sono morti per l’esplosione di un ordigno. La tensione resta altissima, e la guerra può ricominciare in qualsiasi momento. Israele non ha mai davvero smesso di bombardare. Non sono mai stato così pessimista: oggi temo perfino il rischio di una guerra civile. La realtà, ormai, ha superato la finzione, e io ci convivo ogni giorno.