laR+ L’intervista

Philipp Fankhauser, il blues scorre ancora

È la migliore delle rinascite questo ‘Ain’t That Something’, nuovo grande album per certificare il ritorno alla musica di chi se l’è vista davvero brutta

Il bluesman svizzero e il nuovo disco
8 marzo 2025
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‘Let Life Flow’, “lascia che la vita scorra” cantava Philipp Fankhauser nel 2019, un buon auspicio messo in discussione un anno fa dalla mielofibrosi, una cosa che non ha nulla a che fare con il blues e che provò a strappargli la chitarra di mano e il microfono dalla bocca. Benedetto dalle cellule staminali, il bluesman svizzero è tornato. “Ho ripreso la mia vita senza restrizioni e voglio trascorrere i prossimi vent’anni scrivendo canzoni, registrando album, suonando dal vivo e viaggiando per il mondo”, diceva a luglio 2024. «È stata una meraviglia della medicina», ci dice oggi a poche ore dall’uscita di ‘Ain’t That Something’ (più o meno ‘È già qualcosa’), il nuovo album che si sarebbe pure potuto chiamare ‘Lascia che la vita scorra – Parte 2’ ma che in fondo ha un titolo che la dice tutta sul bello dell’essere ancora vivi. «Cosa ho pensato in quei momenti? Mi è semplicemente preso il panico, come credo possa succedere a tutti coloro ai quali venga diagnosticata una malattia grave, che pare non ti farà vivere a lungo e per la quale esiste solo un trattamento, che a sua volta nemmeno è una garanzia di guarigione. Io sono stato fortunato».

Qualcosa di magico

Ci sono quattro Fankhauser in copertina, ma nessun significato recondito, dice il nostro. Anche se: «Era una delle proposte del nostro grafico e ci è piaciuta la combinazione dei colori, delle mie facce strane e dei miei stati d’animo. Ma più forte mi sento senz’altro. Qualche mese prima di entrare in ospedale non potevo fare una rampa di scale con la borsa della spesa senza dovermi fermare a metà, e prendere fiato». Visto come stavano le cose, per ‘Ain’t That Something’ non è mai esistito un piano e forse la grandezza di quest’album, che chiama aggettivi ridondanti e sinceri, potrebbe avere a che fare inconsciamente con la rinascita. «Dal mio letto d’ospedale – racconta Philipp – ho pensato che in quei nove mesi in cui sarei rimasto fuori servizio avrei avuto tanto tempo per scrivere musica nuova, ma non sono mai riuscito a trovare le parole, i groove».

I Limusic Recording Studios di Limoux, in Francia, erano già stati riservati, tutto era pianificato e nessuno sapeva come Philipp ne sarebbe uscito. «Ho sempre avuto la certezza che avremmo fatto un buon lavoro. A fine luglio, prima di cominciare, non avevo niente in mano e ho cercato nei miei archivi canzoni meno note e che ho sempre amato». Hendrix Ackle (piano, Hammond e Wurlitzer), Richard Spooner (batteria), Flo Bauer (chitarre), Daniel Durrer (sax e clarinetto) Andrew J. Tolman (basso) e il produttore Kent Bruce hanno ascoltato gli originali; Bruce ha chiesto se esistesse una preproduzione: «Avevo nascosto la realtà, non avevo nulla, ma quando i ragazzi hanno cominciato a provarle ci siamo accorti che funzionavano tutte. Credo sia stato qualcosa di magico, non c’è una sola copia degli originali».

Se mai servisse un occhio esterno ad avvalorare la cosa, così è. Come in ‘After Midnight’, dove Philipp prende le distanze dalla più frenetica versione di Eric Clapton per andare verso quella del suo autore, che la scrisse qualche anno prima: «Per quanto io la preferisca fatta da Clapton, volevo onorare J.J. Cale. Per inciderla sono bastate un paio di take. Il mio nuovo chitarrista, Flo, è una meraviglia per essenzialità, senza sbrodolature e con un gusto che pochi hanno». In nome del registrare live, il brano termina nel modo più naturale: i musicisti che stanno suonando insieme si guardano in faccia e decidono di chiuderla lì.

Ho visto un re

Più o meno a metà disco, invece, Philipp guarda in faccia al Re del Rock and Roll: canta ‘In the Ghetto’ e noi ci immaginiamo l’Elvis della leggenda, quello che sarebbe vivo e lavorerebbe in una stazione di servizio di Richmond, in Virginia, mentre sente la canzone uscire dalla radio di un’auto davanti alla pompa di benzina ed esclama “niente male questo tizio…”. Più seriamente: «Elvis è il mio cantante di blues bianco preferito. Nel 2006 al Gurtenfestival portai con me i Sweet Inspirations, il gruppo vocale che cantò per lui e che canta nel mio ‘Watching From the Safe Side’ (album del 2006, ndr). Dissi alla mia band che per onorare la loro presenza avremmo potuto suonare ‘In the Ghetto’, e il pubblico ne fu entusiasta». Così, quasi vent’anni più tardi, Philipp può rispondere a chi al tempo gli chiese quando l’avrebbe messa su disco. Su quanto responsabilizzi cantare Elvis, così risponde: «Qualche anno fa ho cantato Lucio Dalla, lì ci è voluto molto più coraggio».

A suo agio con chiunque, Fankhauser si prende anche ‘Let’s Go Get Stoned’ e si aggiunge a Ray Charles, James Brown, Joe Cocker e una manciata di altri grandi che l’hanno fatta propria sin da quando il brano fu scritto, giusto sessant’anni fa. Nel pezzo ci sono Bobby Rush e, come altrove nel disco, le voci delle Shoals Sisters e gli storici fiati dei Muscle Shoals Horns, già con Dylan, B.B. King ed Elton John (nel novembre del 1974 al Madison Square Garden con John Lennon ospite). La pedal steel di Reggie Duncan in ‘If I Can Make Mississippi’ di Vince Gill (un re del Country che dorme in un letto di Grammy) apre a ‘The Undertaker’, canzone scritta da Prince per Mavis Staples in cui il grido pacifista (“Turn off the violence / There’s children watching”) si mischia a uno ‘salutista’, quel “Dont’go with the crack / You may ever come back” cui Fankhauser ha aggiunto il suo personale “Don’t let tina kill ya / You gotta drop the blues”, dove tina non è Tina Turner ma il Fentanyl come lo chiamano al di là dell’oceano. E quando Luis Conte, ospite della traccia, ha suonato l’ultima percussione, ecco ‘Don’t Let Go’, un momento gospel scoperto da Philipp nella serie ‘Fatherhood’ di Netflix, qui per sola voce, pianoforte e Shoals Sisters: «Sembra una canzone triste, in realtà è un inno alla vita, di quelle tristezze che ti fanno felice». Niente di più blues.

L’italiano

Prendendoci licenze cronologiche, il nostro racconto è andato più o meno in ordine di traccia, per un disco aperto dalla title-track, scritta da Steve Jordan per Solomon Burke, e che ha in ‘That’s How I Got to Memphis’ di Tom ‘The Storyteller’ Hall (traccia 2) la highway song per eccellenza. Giusto il tempo di congedare Otis Redding (‘I’ve Got Dreams to Remember’) e l’album si chiude con l’omaggio franco-italofono per cui Philipp ha lanciato l’amo: nel 2019 su ‘Let It Flow’ fu ‘Milano’ di Dalla, questa volta è ‘L’italien’ di Serge Reggiani (1922-2004), tributo del cantante e attore naturalizzato francese alla sua terra d’origine, che per il bluesman svizzero è un cerchio che si chiude: «A inizio anni 70, nel mulino che si vede nel video della canzone, ci trascorrevamo l’estate. Mia madre lo affittava per trenta franchi al mese, da giugno a ottobre. Lei ha sempre ascoltato musica francese, Brel, Brassens, Moustaki, Aznavour, e in particolare ‘L’italien’, che io avevo imparato a memoria. Quando quest’anno siamo arrivati in Francia ho chiesto ai ragazzi cosa pensassero della canzone: dall’originale, iperarrangiato, è uscita una versione roots». E anche qui è bastato schiacciare il tasto ‘REC’.

Ieri Philipp Fankhauser ha presentato questo gioiello da tredici, vitali tracce davanti al Theater National di Berna sold-out. Dal 14 marzo in avanti ci saranno, al momento, altre trentuno occasioni per ascoltarlo dal vivo, una anche a Lione. La Svizzera italiana – che quando il bluesman dai lunghi trascorsi locarnesi suona qui si spella sempre le mani – latita anche questa volta. Pertanto, amici di Estival Jazz, Jazz Cat Club e affini: ‘Ain’t That Something’ is worth it (detto in svizzeroitaliano, “ne vale la pena”).