Volevamo celebrare i suoi quasi 80 anni, celebriamo anche ‘Gemma e le altre’, dal disco del 1989 al libro, da presentarsi il 26 aprile nella Hall del Lac
Non è invidia, come potresti mai provarne davanti a cotanto talento? Forse è solo che avresti voluto esserci, anche solo dietro le quinte, mentre Rita Pavone cantava all’Ed Sullivan Show nello stesso anno dei Beatles, lei in maggio e loro in novembre. Nel giro di un paio di anni, quello scricciolo dai capelli rossi, figlia di un operaio della Fiat e di una casalinga, era passata dalla periferia di Torino all’Italia e dall’Europa a New York; partita con le feste studentesche era arrivata, sconosciuta, al Festival degli sconosciuti di Ariccia, poi negli studi della Rai, in quelli di Cinecittà e della Cbs. Fino alla Carnegie Hall, tempio del jazz tra i grattacieli della città che non dorme mai. Intonata come un diapason, con un tempo sul testo da fare invidia a Sinatra, il 17 maggio del 1964 Rita cantava ‘Remember Me’ nello show che cambiava per sempre le carriere dei giovani cantanti. L’aveva cambiata anche a Elvis Presley, qualche anno prima.
È sul Tubo, che quell’esibizione ancora generosamente regala, che ci prende ogni volta la voglia di esserci stati, o forse è solo l’innamoramento vissuto in giovanissima età per colei che Umberto Eco definì “la prima diva della canzone che non fosse donna, ma non era neppure bambina”, il fascino di “una ragazza che camminava verso il pubblico con l’aria di domandare un gelato, e le uscivano di bocca parole di passione” (da ‘Apocalittici e integrati: comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa’, Bompiani, 1964).
«Giorni fa ero in Spagna e un’amica mi dice che Antonio Banderas aveva parlato di me in tv. “Ero innamorato di una cantante italiana, Rita Pavone. La fessurina in mezzo agli incisivi mi affascinava. Avevo 7 anni, ero cotto di lei!”. I miei fan mi hanno scritto: “Antonio, mettiti in coda!”». Incontriamo Rita Pavone a Chiasso, nel mezzo di un rigurgito d’inverno. A Napoli, Roma e Milano gli ‘instore’ – così si chiamano oggi gli incontri con l’autore nelle librerie – hanno funzionato. «Spero che funzioni anche quello del Lac». Sabato 26 aprile alle 11, con ingresso gratuito, la Hall del centro culturale ospiterà la seconda delle ‘Tondo Voices’, gli incontri di Tondo Music che di casa sta a Maroggia ma ha appendici vinilico-letterarie nel Lac Shop. E proprio in collaborazione con Lac e Lac Shop si tiene il Meet & Greet con Rita Pavone, al suo esordio narrativo con ‘Gemma e le altre’, sottotitolo ‘Donne ferme, donne che camminano’ (La nave di Teseo), da raccontarsi a Lugano moderata da Jacky Marti.
Titolo e sottotitolo del libro sono rispettivamente la traccia 6 e 2 di un disco che nel lontano 1989 ottenne i favori della critica ma una tiepida popolarità mediatica. Rita scrisse da sé i testi dell’album, su musica di Carolain, al secolo Laura Trentacarlini. ‘Donne ferme, donne che camminano’, la canzone, fu scartata dal Festival di Sanremo di quell’anno malgrado fosse (sia) un inno femminista di una certa potenza. Complice Elisabetta Sgarbi e una delle Milanesiane che hanno visto ospite Rita, ‘Gemma e le altre’ non è più solo un album nel quale si parla anche di un amore lesbico (‘Gemma’, nata dalla visione di ‘Quelle due’, film del 1961 con Audrey Hepburn e Shirley McLaine dal tragico finale). Ora ‘Gemma e le altre’ è un centinaio di pagine in cui le canzoni, ivi raccontate, sono un concentrato aggiunto di resilienza femminile.
Nessuno spinse quel disco nel 1989, e non per l’atavica snobberia italiana verso chi da interprete di successo tenta di evolvere in autrice: «In quegli anni – racconta Rita – non potevi cantare di frustrazioni femminili, men che meno di un amore omosessuale. Gli unici che mi permisero di proporre il disco in tv furono Raffaella Carrà e Corrado Mantoni, ma un paio di passaggi non servirono a molto. Le radio non passavano le canzoni nemmeno di fronte alla bontà delle recensioni. Ma cantandole nei miei spettacoli mi sono accorta che il pubblico le accettava».
Ci sarebbero stati altri episodi di Rita Pavone autrice di testi. Ne ‘La strada’ per esempio, il Fellini portato a teatro da Enrico Crivelli nel 1995. «Lì il mio tutor fu Luis Enriquez Bacalov», con il quale Rita co-firma ‘Che senso ha’. Bacalov e Nino Rota, rispettivamente direttore musicale e autore delle musiche de ‘Il giornalino di Giamburrasca’, non sono i soli premi Oscar ad avere scritto per Rita. Ci sono pure Sir Lloyd Webber e Tim Rice, che nel 1969 per lei scrissero e produssero ‘Try It and See’. «Quando andai a vedere ‘Jesus Christ Superstar’ la riconobbi, era diventata la canzone di Erode (‘King’s Herod Song’, ndr). Webber la inserì nel suo cofanetto ‘Now and Forever’, spendendo nel booklet parole di stima nei miei confronti. Conservo quel disco come una reliquia».
‘Gemma e le altre’, libro e disco, hanno un centro intitolato ‘Sua maestà l’amore’, sentimento attraverso il quale Rita pare avere sempre scelto. Anche quando, nel 1963, un anno dopo la notorietà, è convinta che il paroliere Carlo Rossi possa produrre il miglior testo possibile per la cover italiana della struggente ‘Cuore’, in origine ‘Heart (I Hear You Beating)’. La Rca italiana, al contrario, temeva che dopo ‘La partita di pallone’, ‘Come te non c’è nessuno’ e ‘Alla mia età’ il ‘brand’ Rita Pavone avrebbe potuto perdere il suo riferimento giovanile. «Dissi al signor Ferruccio che mi ero innamorata di quella canzone. Lottammo tanto e siccome lui era il mio produttore e aveva l’ultima parola, ‘Cuore’ si fece. Anche se l’etichetta la mise sul lato B de ‘Il ballo del mattone’, quasi per dispetto. Entrai anche nelle classifiche inglesi, dove Wayne Newton con la prima versione non era stato capace di entrare. ‘Cuore’ è la canzone che mi identifica. Sì, ho scelto sempre con il cuore».
Il signor Ferruccio è il quasi centenario Ferruccio Merk Ricordi in arte Teddy Reno, sua maestà l’amore di tutta una vita. «E all’inizio nemmeno mi piaceva, perché cantava canzoni vecchie». Sorride Rita, i cui amori prima dell’oltraggioso (per la morale del tempo) matrimonio con un uomo che già aveva preso moglie erano stati solo due: il Bruno Filippini che cantava “ma sabato sera ti porto a ballare, ti potrò baciare” («E infatti ad Ariccia ci baciavamo come due matti, ma fu una storia da ragazzi, di quelle che una mattina ti svegli e non senti più nulla») e l’attore William Holden: «Avevo visto ‘Picnic’ al cinema e quando Kim Novak gli aveva strappato la camicia, lasciandolo a torso nudo, avevo realizzato che gli ormoni mi funzionavano benissimo!». Poi il signor Ferruccio è entrato negli studi della Rca italiana...
«Credo di avere sempre amato uomini più grandi di me. Era bello, scese le scale con la giacca buttata sulla spalla e fece un discorso a noi ragazzi. Disse più o meno che era inutile rischiare di perdere un lavoro in cui si era capaci per cercare di fare il cantante se non se ne avevano i requisiti». Ma Rita i suoi requisiti li aveva testati da tempo: «Avevo cantato nei posti più lerci, nelle situazioni più infime, e sembravo una bambina. Per farmi scritturare, mio padre spediva fotografie nelle quali sembravo più grande. Poi, quando mi incontravano, gli impresari gli chiedevano: “Ma è questa la cantante?”». Oggi si chiama body shaming.
«Io non conosco la musica», dice Rita quando le chiediamo di spiegare il suo talento. «Se mi chiedono in quale tonalità io stia cantando, confesso che non lo so. Credo di avere un buon orecchio musicale, ma mi sarebbe sempre piaciuto imparare a suonare uno strumento». Sono due le sue autobiografie: la prima è “Nel mio ‘piccolo’”, uscita nel 1997 per Sperling & Kupfer, la seconda è ‘Tutti pazzi per Rita’, scritta con Emilio Targia per Rizzoli nel 2015. Molti sono i capitoli che parlano di musica suonata e cantata, visto che al tempo non si diventava famosi per il fatto di essere famosi. Impagabile è il racconto di Rita che vola in America per incidere con la Rca Victor, a New York, da dove arrivano, tra gli altri ‘Non è facile avere 18 anni’, ‘Small Wonder’, ‘The international teen-age sensation’, e a Nashville, da dove arriva ‘Rita Pavone’, prodotto dal grande chitarrista Chet Atkins che nel disco vuole con sé il pianista Floyd Cramer, il trombettista Al Hirt e il coro di Anita Kerr, già al servizio di Elvis Presley. «Negli studi americani si registrava in diretta, a differenza dell’Italia non si facevano sovraincisioni. Io avevo il terrore di registrare con l’orchestra, perché se avessi sbagliato, anche gli orchestrali avrebbero dovuto ricominciare da capo. E quando battevano gli archetti sui leggii in segno di apprezzamento, io ero felicissima».
Rita sarebbe potuta restare più a lungo negli Stati Uniti, ma altri scelsero per lei. «Dopo il primo Ed Sullivan avevo cantato al Maple Leaf Garden di Toronto davanti a 23mila persone, i Beatles ne avevano fatte mille in più. Mi diedero un riconoscimento per essere stata l’artista femminile con più pubblico, mi dissero che con tutto il movimento che si era creato dovevo restare, perché avremmo perso un’occasione che non si sarebbe più ripresentata. Papà non ne volle sapere, io avevo 19 anni e la maggiore età in Italia era 21. Fu drammatico per me perché le possibilità erano tante, ma il successo non m’importava, a me importava imparare quel loro modo di lavorare. Negli Stati Uniti mi portarono a teatro a vedere ‘Funny Girl’ con Barbra Streisand, che conobbi di persona, al Cocabana vidi Sammy Davis Jr. che cantava, ballava il tip-tap, suonava la batteria, faceva le imitazioni. Non capivo una parola, eppure rimasi estasiata dal loro talento. Volevo imparare a fare di tutto e gli Stati Uniti erano il posto giusto». Ma papà non volle sentire ragione: “Mia figlia torna a casa”. «Il motivo era che aveva una storia d’amore con un’altra donna…».
L’aver fatto di tutto, anche ‘La dodicesima notte’ di Shakespeare o il Fellini di cui sopra, anche quello che non le piaceva «è stato una guida. Faccio fatica a trovare questo tipo di approccio nei nuovi artisti, perché quella che sento oggi è musica che lascia il tempo che trova. Poi, quando mi sono voluta divertire, mi sono regalata ‘Masters’», l’album uscito nel 2011 dopo 24 anni di silenzio discografico, lanciato da una cover di ‘I Want You With Me’ di Elvis Presley. A questo proposito…
Successe a New York, nei giorni in cui Rita stava incidendo per la Rca Victor il suo primo album americano, ‘The international teen-age sensation’, per il quale Ed Sullivan aveva detto a quelli dell’etichetta: “Se fate un disco con questa ragazza, io la prendo nel mio show”. E il suo show era il massimo che un artista potesse chiedere: «Judy Garland, Frank Sinatra, Sammy Davis Jr., tutti i più grandi sono passati da lì. Nella mia terza puntata sono stata il terzo nome dopo Ella Fitzgerald e Duke Ellington». Quel giorno, negli studi della Cbs è tutto un bisbigliare di “Elvis! Elvis!”: «Chiedo a una signora se stiano parlando di Presley e lei mi risponde di sì, che in serata verrà a registrare. Chiedo di poterlo conoscere e mi viene detto che non è possibile. Dico “non mi potete fare questo! Come ci torno a Torino?”, e allora qualcuno dice a qualcun altro “quando arriva lui lo fermi, gli dici che la ragazzina ha già fatto tre Ed Sullivan, che lo vuole conoscere…”. Il primo “lui”, quello al quale raccomandarsi, era il colonnello Parker, manager di Presley.
Rita ricorda che verso la mezzanotte arrivarono i Jordanaires, il gruppo vocale di Elvis, poi il suo fonico, il suo assistente, l’avvocato e infine lui. «Portava i basettoni lunghi fino a qui, un paio di Ray-Ban gialli e una camicia blu con il colletto nero, o viceversa. Disse “Hi guys!” e rivolgendosi a me: “Oh, ma io ti conosco. Ti ho vista all’Ed Sullivan Show, sei grande!”. Io biascico: “… per favore, potrei avere una tua fotografia?” e lui risponde “ma certo, ti voglio dare di più di una fotografia”, e chiama la sua assistente che arriva con una tela sulla quale lui scrive “Best wishes to Rita”. Poi mi dice “molto bene” e mi saluta. E in quel preciso momento entra quest’uomo…». Rita interrompe il suo racconto, si alza e ne imita l’andatura: «… perché il colonnello Parker era davvero una carogna, era proprio come lo fa Tom Hanks nel film (‘Elvis’ di Baz Luhrmann, 2022, ndr). Ecco, davanti a lui avrei alzato volentieri il dito medio, ma all’epoca non si usava».
Inverno 2020. “Non odiarmi”, dice al telefono Amadeus. Rita Pavone, per la quale il Festival di Sanremo non è mai stato un idillio, è pronta a sentirsi dire “mi dispiace”. «Pensavo si stesse per scusare per non avermi scelto e invece mi chiede: “Tu ci sei?”». In mezzo a giovani sgallettanti, tra una canzone d’amore e l’altra e soprattutto senza l’Auto-tune, Rita porta all’Ariston ‘Niente (Resilienza 74)’ scritta da Giorgio Merk, suo figlio, e la platea si alza in piedi a risarcirla di tutte le canzoni poco fortunate portate su quel palco. «È vero. ‘Niente (Resilienza 74)’ mi identifica, perché io sono una che non si fa battere, che lotta fino a che può e poi, se deve perdere, lo fa in maniera coscienziosa e accettando la sconfitta». Intervistare Rita in quei giorni sanremesi fu un’impresa, per via di una Pavone-mania da tempi che furono.
In ‘Tutti pazzi per Rita’, Pupi Avati scrive: “Io credo che ora sia pronta per fare un disco insieme al grande Tony Bennett”. «Lo incontrai dopo un suo concerto a Chicago, ma forse era Toronto», ricorda Rita. «Ci invitò nella sua suite, rimanemmo una mezz’ora, io imbarazzatissima perché dietro di me c’era una fila di persone che attendevano di parlare con lui, che invece non smetteva di chiedermi se mi piacesse questo mestiere, se avrei continuato a farlo, se sarei tornata in America». Il duetto con Tony Bennett non è più possibile dal 21 luglio 2023. «Potrei dire che duetterei volentieri con Barbra Streisand, ma gli anni sono passati, sia per me che per lei. Non per questo io mi fermerò, almeno fino a che avrò questa energia che mi fa fare tante cose. Se non passo davanti allo specchio e vedo le mie rughe, non mi sento una donna di quasi ottant’anni. Mi sento al massimo una quarantenne, perché sono dritta, mi muovo bene, non ho affanni e mi diverto come una matta. Guardi la Vanoni, di anni ne ha novanta e continua a cantare benissimo. Se la voce ancora funziona bene, se sai trattarla con i guanti, l’età è irrilevante».