L'intervista

Simon Oslender, ragazzo prodigio

Classe 1998, il pianista, tastierista e organista tedesco questa sera alle 20.30 ad Ascona in Trio per il gran finale del Jazz Cat Club

Simon Oslender
(Klein Gros)
12 maggio 2025
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Con il suo talento cristallino e una maturità musicale sorprendente per i suoi 27 anni, Simon Oslender – pianista, tastierista e organista tedesco – si sta affermando come una delle nuove voci più autorevoli del jazz europeo. Questa sera chiuderà la 17esima stagione del Jazz Cat Club (alle 20.30 al Teatro del Gatto di Ascona, biglietti su jazzcatclub.ch), lo abbiamo incontrato per parlare del suo percorso, delle sue collaborazioni stellari, del legame speciale con il batterista Jérôme Cardynaals e dei ricordi legati a JazzAscona dove, appena 18enne, aveva già fatto parlare di sé.

Hai solo 27 anni, ma hai già suonato con leggende come Steve Gadd, Eddie Gomez, Nils Landgren, Randy Brecker, Will Lee... Cosa hai imparato da loro, soprattutto da un’icona come Gadd?

Ogni volta che suono con musicisti di questo livello è una lezione continua. Quello che mi colpisce sempre di loro è quanto tengano sia alla musica sia ai rapporti umani. Si percepisce una cura profonda, non solo per ciò che si suona, ma anche per l’energia collettiva che si crea. Non c’è spazio per l’ego o il virtuosismo fine a sé stesso: l’obiettivo è sempre trovare il giusto feeling e lasciare che la musica prenda vita, divertendosi nel farlo. Steve incarna perfettamente questo spirito. Ogni volta che sei con lui, vivi qualcosa di speciale, sia a livello musicale che umano. Riesce a mettere tutti a proprio agio e trasmette un amore genuino per ciò che fa – senza sovrastrutture, senza pose, solo cuore, anima e autenticità. È proprio questo che crea le condizioni ideali per fare musica vera, insieme.

Con Steve Gadd sembra esserci un legame speciale. Possiamo dire che sei uno dei suoi pupilli? Come vi siete conosciuti? Progetti futuri insieme?

Avere l’opportunità di passare del tempo e suonare con Steve mi sembra ancora surreale. Steve è stato il mio idolo per anni, e oggi è anche un amico. Ci siamo conosciuti durante la registrazione di ‘Center Stage’, un album che Steve ha realizzato con Eddie Gomez, Ronnie Cuber e la WDR Big Band. Mi hanno chiamato all’ultimo momento per suonare alcuni brani ed ero davvero agitato, completamente in soggezione. Ma Steve è stato accogliente fin dal primo istante, e appena abbiamo iniziato a suonare, tutto è andato liscio. Un sogno, davvero. Più tardi mi ha detto che gli sarebbe piaciuto lavorare ancora insieme, così io e il mio produttore, Joachim Becker, gli abbiamo proposto di suonare nel mio ultimo album. Ha accettato con entusiasmo e da lì è nata una bellissima collaborazione. C’è un’intesa musicale molto forte tra noi, come se ci conoscessimo da sempre: tutto scorre in modo naturale. Sono felice di dire che torneremo in tour in Europa a novembre 2025, e stiamo già preparando nuovi progetti per il 2026.

Suoni con Jérôme Cardynaals da quando eravate ragazzi. Com’è cambiata la vostra intesa da allora?

Il legame che ho con Jérôme è davvero speciale. Siamo cresciuti insieme musicalmente, condividendo tutte le nostre prime esperienze professionali, e da allora siamo rimasti grandi amici. Con il tempo, il nostro rapporto si è rafforzato sempre di più: c’è fiducia, affetto e una profonda sintonia, ed è proprio questo, secondo me, il terreno ideale per fare musica insieme. Jérôme ha un suono tutto suo – potente e funky, ma anche giocoso e aperto – ed è una fonte continua di ispirazione per me. Suonare con lui è sempre come tornare a casa. Ed è una sensazione bellissima.

Nel 2016 hai debuttato con Jérôme a JazzAscona, a soli 18 anni. Che ricordi hai?

Indimenticabili. Ascona è un posto che amiamo molto, e suonarci così giovani è stato pazzesco. Il pubblico, l’atmosfera… Tutto ci ha fatto sentire accolti. Siamo davvero felici di tornarci!

Sei entrato molto presto nel mondo della musica professionistica. Qual è stata la sfida più grande crescendo in quell’ambiente?

Suonare per me non è mai stato un lavoro perché quasi sempre mi diverto. La parte più difficile, a volte, è riuscire a credere in te stesso e continuare a seguire la tua strada. Ci sono così tante opinioni, tante voci intorno, che uno può anche perdersi o iniziare a paragonarsi agli altri… e ciò, ogni tanto, ti butta un po’ giù. Però una cosa che ho imparato, anche se non è facile, è cercare di essere gentile con sé stessi e tenere il focus su quello che si ama fare davvero. Alla fine, è quello che conta.

Nei tuoi dischi si sente una forte identità. Com’è cambiato il tuo modo di comporre e improvvisare negli ultimi anni?

Cerco di evitare la routine nella composizione per non fossilizzarmi. L’approccio cambia sempre e mi piace pensare che sia la musica a mostrarmi la strada. Basta tenere le orecchie e la mente aperte per lasciarla fluire. Ad esempio, adoro comporre al pianoforte, ma non è sempre lo strumento giusto per ogni idea – quindi magari prendo in mano una chitarra, un basso oppure canto una melodia nel telefono mentre sono in viaggio. Scrivere è più semplice quando sai esattamente chi suonerà i brani. Per il mio ultimo album ‘All That Matters’ sapevo che la musica sarebbe stata eseguita da Steve Gadd, Will Lee, Bruno Müller e ospiti speciali come Jakob Manz e Nils Landgren, tutti musicisti con personalità musicali fortissime. Sentivo già il suono in testa fin dai primi spunti...

Il tuo trio mescola soul, jazz, funk e gospel. Cosa volete trasmettere al pubblico?

Vogliamo condividere gioia, emozione vera. La musica per noi è un linguaggio che unisce, un antidoto alle difficoltà del mondo. Cerchiamo sempre di far arrivare qualcosa di positivo, ovviamente con tanto groove!