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‘Feed the World’, c’era una volta Live Aid

Mezzogiorno a Londra, le 7 a Philadelphia: il 13 luglio del 1985 la musica cantava per l’Africa, nel concertone più importante dai tempi di Woodstock

Sabato 13 luglio 1985, ore 22, Londra: George Michael, Bono, Paul McCartney e Freddie Mercury, tra gli altri (Keystone)

Mezzogiorno a Londra, le 7 a Philadelphia: il 13 luglio del 1985 la musica cantava per l’Africa, nel concertone più importante dai tempi di Woodstock

12 luglio 2025
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“Nel biopic si dice che i Queen fecero il loro pezzo, il mondo impazzì e le linee telefoniche collassarono, ma non è vero”. Sul Tubo, ospite di ‘Q with Tom Power’, aspettando i quarant’anni di Live Aid che cadono domani, Bob Geldof aggiunge altra imperfezione storica a ‘Bohemian Rhapsody’, la storia dei Queen scritta dai Queen un po’ a uso e consumo proprio. “Andai da Harvey Goldsmith, il produttore dello show, insieme a David Bowie”, racconta Geldof, musicista, attore e attivista irlandese artefice del concertone del secolo (scorso) insieme a Midge Ure degli Ultravox, che nessuno ricorda mai. “Mostrai quel filmato e Bowie si mise a piangere. Disse che non gli importava di quante canzoni avrebbe cantato, e che avrebbe rinunciato a una perché fosse trasmesso”. Bowie arrivò a minacciare di disertare il più grande happening musicale dai tempi di Woodstock, già previsto per metà nel vecchio Wembley Stadium di Londra, più tardi demolito e ricostruito, e per l’altra metà nel JFK Stadium di Philadelphia, più tardi sostituito da un bel centro commerciale.

Eroi per un giorno

“Quel filmato” è un reportage del giornalista Brian Stewart, che nel 1984 documentava per la canadese CBC gli effetti della carestia in Etiopia, immagini che un tempo smuovevano le coscienze. Un reportage simile realizzato nello stesso anno dalla BBC aveva cambiato la vita di Geldof, leader dei Boomtown Rats, noto per il singolo ‘I Don’t Like Mondays’ e una parte nel film ‘Pink Floyd - The Wall’ di Alan Parker. Rimasto senza parole davanti alla tv, Geldof s’inventò ‘Do They Know It’s Christmas?’, singolo benefico uscito nel dicembre del 1984 e cantato dalla superband denominata Band Aid; tre mesi dopo, gli americani incisero ‘We Are the World’ e la superband si chiamò USA for Africa. Il 13 luglio del 1985, questi e altri artisti disposti a nutrire il mondo’ (“Feed the World” era lo slogan) si ritrovarono negli stadi di cui sopra per una diretta tv passata alla storia come ‘Il juke-box globale’.

“È indubbio che il set dei Queen fu il migliore della giornata – ricorda Geldof –, ma questo è ciò che accadde veramente: Bowie canta ‘Heroes’ e Wembley è in delirio; lui ringrazia, zittisce tutti e invita a guardare lo schermo sul palco...”. Parte il filmato della CBC: “Dalle riprese tv si vede bene: sotto i palchi ci sono la gioventù britannica e quella americana, la gioventù sorridente del mondo, nel pieno della salute e della bellezza, sotto un cielo blu; poi le facce diventano buie, le ragazze con solo il reggiseno indosso si coprono, come esposte a qualcosa di poco chiaro, e fanno per scendere dalle spalle dei ragazzi. È quello il momento in cui le linee telefoniche crollarono, in alcuni posti letteralmente”.

KeystoneDavid Bowie e Bob Geldof

British Museum

Fino al 2004, per rivedere Live Aid era indispensabile esserselo registrato dalla tv, previo acquisto di un buon numero di videocassette. Perché ogni tentativo di caricamento su YouTube è andato vano per anni. Fino alla pubblicazione del Dvd multiplo con 10 delle 16 ore di musica suonate.

Il 13 luglio del 1985, quando a Philadelphia sono le 7 del mattino a Londra è mezzogiorno e gli Status Quo attaccano ‘Rockin’ All Over the World’. Live Aid è cominciato. L’ex punk Paul Weller pilota gli elegantissimi Style Council, Geldof canta l’unico brano per cui è famoso, gli Ultravox di Ure la splendida ‘Vienna’. Dopo gli Spandau Ballet c’è Elvis Costello, che se ne frega dell’autopromozione e canta i Beatles. Nik Kershaw, con le sempreverdi ‘The Riddle’ e ‘Wouldn’t It Be Good’, precede Sade, black-soul per palati fini, poi Sting e Phil Collins si cantano l’uno con l’altro, tra una ‘Roxanne’ e una ‘Against All Odds’. Poco dopo, come quel MartyMcFly che gli americani hanno appena conosciuto, Collins salirà sul supersonico Concorde della British Airways per tornare indietro nel tempo e cantare anche dall’altra parte del globo.

A Londra ci sono anche Howard Jones, Bryan Ferry e Paul Young, e dalle 17.20 in poi Wembley diventa una specie di museo d’arte moderna: gli U2 staccano ‘Sunday Bloody Sunday’; alle 18 in punto i Dire Straits cantano con Sting ‘Money For Nothing’, poi 10 minuti di ‘Sultains of Swing’. Alle 18.40 salgono i Queen, che su Live Aid ci hanno costruito un biopic intero, al quale rimandiamo. Alle 19.20 sale il Bowie più pop di sempre, che non era male. Dedica a tutti i figli della terra ‘Heroes’. Del filmato abbiamo già scritto.

KeystoneThe Who

Natale in piena estate

Prima che a Philadelphia si riuniscano i Led Zeppelin, a Londra si riuniscono The Who, assidui frequentatori dei concertoni (Monterey 1967, Woodstock 1969, Isle of Wight 1970), ma per problemi tecnici li si ascolterà solo per metà. Non passerà alla storia nemmeno la reunion dei Led Zeppelin al JFK Stadium, perché le corde vocali di Robert Plant sono in palese sofferenza e la loro nemmeno è una reunion, visto che per rispetto dell’insostituibile John Bonham (1948-1980) il nome della band è semplicemente Plant, Page, Jones.

A Londra, con un fez in testa e band di 15 elementi al seguito (e i fonici con le mani nei capelli), Elton John non ancora Sir ha chiesto di cantare più canzoni di tutti All’imbrunire londinese, l’attore Bill Connolly annuncia che il 95% del pianeta è collegato (ma pare fosse solo un dignitosissimo 40%) e ufficializza l’arrivo del pianista “dal pianeta Windsor” (dal 1975 Elton è vicino di casa dei reali britannici). Il set è aperto da ‘Bennie & the Jets’ e chiuso da ‘Can I Get A Witness’, un tributo alla Motown e a Marvin Gaye, morto ammazzato un anno prima per mano del padre, tra i genitori più nefasti della musica. Con ‘I’m Still Standing’ resa improponibile dai larsen, il Live Aid di Elton John si ricorda per le visioni notturne di ‘Rocket Man’ e ‘Don’t Let the Sun Go Down on Me’ insieme a George Michael, con Andrew Ridgley nascosto tra i coristi e gli Wham! pronti a dirsi addio, un anno più tardi, nel medesimo stadio.

Alle 21.50, metà dei Queen (May e Mercury) canta ‘Is This the World We Created’, da ‘The Works’; cinque minuti più tardi Paul McCartney intona ‘Let It Be’ per pianoforte, stadio e special guest (Bowie, Geldof, Alison Moyet e Townshend), il tempo necessario ad allestire nel buio una versione allargata di Band Aid e cantare – alle 22 in pacca, in piena estate – ‘Do They Know It’s Christmas?’, la canzone dalla quale tutto era cominciato e che ancora risuona – commemorazione più commemorazione meno, defunto più defunto meno – nelle orecchie di tutti gli idealisti o poveri (ma onesti) illusi che dir si voglia.

Tutti contro tutti

Viceversa. Quando a Londra è mezzogiorno, a Philadelphia sono le 7 del mattino e, come una matinée al Lac, poco prima delle 9 il semisconosciuto Bernard Watson apre il concerto al JFK. Alle 9 in punto sale Joan Baez cantando ‘Amazing Grace’, altro ponte con Woodstock come Santana, nel pomeriggio con Pat Metheny ospite.

Al JFK Stadium sono tanti: The Hooters, The Four Tops, Black Sabbath, RUN-D.M.C., Rick Springfield, Reo Speedwagon, The Pretenders. C’è pure Kenny Loggins che canta ‘Footlose’. ‘Teach Your Children’ di Crosby, Stills & Nash è il ponte con un altro concertone, l’anti-nucleare ‘No Nukes’ del 1979. A Philadelphia c’è anche una mezza British invasion: i Judas Priest, prima di pranzo, i Simple Minds, di pomeriggio, Eric Clapton in serata e così i Duran Duran. Detto dei diversamente Zeppelin e di Phil Collins che ogni tanto spunta alla batteria in barba al fuso orario, non sono i Beach Boys, né Tom Petty, né Neil Young, Hall & Oates, Bryan Adams e nemmeno Madonna a fare la storia del confusionario Live Aid di Philadelphia, inferiore in estetica a Wembley per una strana aria da cantiere perenne. Sono semmai Mick Jagger a Tina Turner nel duetto ‘State of Shock/It’s Only Rock and Roll (But I Like It)’, lui a petto nudo in un buffo sfoggio di mascolinità tra il burlesque e il circense. Poi Dylan, poi ‘We Are the World’ e tutti a casa.

KeystoneTina Turner e Mick Jagger

Grazie ma no grazie

A Philadelphia non c’era Michael Jackson, co-autore di ‘We Are The World’, perché in studio a produrre ‘Bad’. Men che meno c’era Prince, che disertò le session della canzone dopo avere preteso di inciderla in una stanza a parte, di firmare il pezzo e suonarvi la chitarra (mandò un video). Springsteen ‘passò’, adducendo quali motivi (1) le session di ‘Born in the U.S.A.’ e (2) la luna di miele con la prima moglie. Il manager di Rod Stewart non considerò fondamentale l’apparizione del suo protetto, e il suo protetto non apparve. Quando Stevie Wonder fece la conta degli afroamericani annunciati cambiò idea, dicendo che non sarebbe stato “il gettone nero” dello show. Boy George, che di Live Aid ebbe l’idea, disse che sarebbe stato “troppo pomposamente rock” per i Culture Club. Nel 2020 rivelò che la motivazione dell’assenza risiedeva nel fatto che nel 1985 era strafatto.

Cyndi Lauper, tra le voci soliste di ‘We Are the World’, finì in ospedale prima del concertone. Dopo avere persuaso Dylan a partecipare, Paul Simon rinunciò che la cosa in sé “era un gran casino”. Peter, Paul and Mary avrebbero dovuto accompagnare Dylan in ‘Blowin’ In the Wind’, ma Geldof impose Keith Richards e Ron Wood. Holly Johnson sarebbe stato felice di partecipare, gli altri Frankie Goes To Hollywood no. George e Ringo disertarono, si dice, per paura di finire nella reunion forzata dei Beatles. I Deep Purple si sarebbero dovuti collegare dall’Hallenstadion di Zurigo, ma – sostiene il cantante Ian Gillan – Richie Blackmore fece saltare l’accordo.

Billy Joel, in difficoltà a mettere insieme la band, non voleva andarci da solo (“Da solo al pianoforte in uno stadio è un po’ dura”), Annie Lennox aveva noduli alle corde vocali. Huey Lewis infine, che in ‘We Are the World’ aveva cantato la linea destinata a Prince: “Gira voce che il frutto di quel disco non sia arrivato a destinazione”, disse. “Ci sembra giusto attendere la conferma che quel denaro sia realmente stato convertito in cibo per le popolazioni, prima di partecipare a un altro evento di questo tipo”.

KeystoneBob Dylan

Pistolotto finale

I tanto vituperati anni Ottanta saranno stati sì anni di fuffa, cocaina ed edonismo, ma la musica era ancora in mano ai musicisti. Con intenti diversi, e comunque siano andate le cose secondo Huey Lewis (più di qualche sterlina pare finita nelle tasche del governo etiope), Woodstock e Live Aid hanno avuto almeno una cosa in comune: gli artisti del momento nel pieno dell’esplosione artistica, ispirati, produttivi, impeccabili (anche Madonna che ballò stonando, ma almeno cantò davvero) e soprattutto giovani e bellissimi. Uno li vorrebbe vedere tutta la vita così, ma ci vorrebbe un altro concertone per raccogliere fondi e sottoporli a criogenia. E comunque è troppo tardi.