laR+ L’intervista

Quel prezioso, libero, jazzistico radiodramma

Dieci anni di musiche di Andrea Manzoni per le storie di Flavio Stroppini, in un album tributo a una forma espressiva ‘che deve essere salvaguardata’

In tutti gli store digitali, su etichetta Another Music Records
2 agosto 2025
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È la testimonianza di quello che l’autore chiama «un lungo apprendistato», è un disco in cui la musica «non accompagna, ma partecipa». ‘Music for Radiodrama’ è l’album del pianista e compositore Andrea Manzoni, deciso a dare senso ancor più compiuto alla collaborazione con Flavio Stroppini per radiodrammi Rsi in cui le storie respirano al ritmo delle musiche e viceversa. ‘New Helvetia’, ‘Fabula’, ‘Dada’, ‘Come un cane senza osso’ (apprezzato omaggio a Jim Morrison), ‘La Prima Nave’ e ‘Casa del Popolo’ sono alcune fonti di questa raccolta, da ieri nella forma digitale, presto in quella fisica.

«È musica che in un modo o nell’altro mi apparteneva, che mi ha formato, musica specifica per radiodrammi ma che, riascoltandola, mi sono accorto poteva vivere di vita propria». Lo dice Andrea e così è per libertà, pulizia ed equilibrio, qualità proprie di chi come lui ha calcato i palchi della Carnegie Hall di New York, del Blue Note di Milano, dell’Arts Center di Hong Kong e tanti altri, in nome della contaminazione musicale.

Andrea Manzoni, da dove nasce l’urgenza per pubblicare un’opera così strutturata?

Nasce dal fatto che il podcast sta sempre più sostituendosi alla forma narrativa occupata sino a oggi dal radiodramma, forma che io credo vada salvaguardata e addirittura insegnata a scuola. Ci siamo ormai abituati a vivere in un mondo di immagini ed è importante non perdere questo precedente tipo di ascolto, anche per la profondità dei contenuti. Ricordo i radiodrammi Rai e quelli della Rsi, che in parte ha dismesso questa tradizione ed è un peccato. È anche per questo che ho deciso di pubblicare ‘Music for Radiodrama’, un lavoro che mi ha coinvolto per così tanti anni e ancora mi coinvolge, perché per fortuna il radiodramma esiste ancora. Potrei dire di avere messo tutto su carta, nero su bianco per poi andare avanti, visto che i progetti con Flavio da qui ai prossimi due anni sono tanti. E non so se sia mai stato pubblicato un disco di musica per radiodrammi, so che ne esistono con brani di compositori contemporanei le cui musiche sono state utilizzate per i radiodrammi, ma non appositamente scritte. Comunque sia, ed eccezion fatta per un piccolo remastering, i brani dell’album sono esattamente quelli da me scritti per Flavio.

Possiamo spiegare il valore e il significato di ‘lungo apprendistato’?

All’età di vent’anni ho iniziato a sonorizzare i film del cinema muto (Buster Keaton, Chaplin, Lubitsch, e il recente restauro da parte della Cineteca di Bologna de ‘La corazzata Potëmkin’ di Éjzenštejn, ndr). Sino ad allora non avevo mai lavorato su materiale musicale che non appartenesse solo a una questione emotiva mia personale. È stato interessante riuscire a distaccarsi, cimentandosi con le differenti logiche della composizione tradizionale e di quella per immagini. Ognuno di noi ha una sensibilità emotiva personale nel percepire la musica e nello scriverla: quando un musicista scrive per sé lavora toccando corde emotive personali, mentre quando lavora sulle immagini o su una narrazione deve prendere una certa distanza da ciò che è, trovando lo spazio all’interno della nuova forma. Io l’ho fatto dapprima confrontandomi con il film muto e successivamente con i radiodrammi, che sono stati una grandissima palestra.

Come e quando nasce l’Andrea Manzoni applicato ai radiodrammi?

Nel 2004, quando venni chiamato per una sostituzione alla Rsi. Avevo 24 anni, non avevo mai fatto un lavoro di questo tipo. Ricordo che attraverso il talkback il regista mi diceva: “Andrea, ho bisogno di trenta secondi di fiume in piena che scorre verso valle...”, e io dovevo improvvisare in tempo reale quel tipo di emozione attraverso il pianoforte. Oppure: “Ho bisogno di due minuti di una cavalcata in mezzo alla valle...”, e di nuovo dovevo improvvisare. Il cinema muto mi aveva insegnato a fronteggiare rapidamente i cambi narrativi, quindi è meglio dire che sono stati proprio i film muti la palestra che mi ha preparato per i radiodrammi. I primi lavori furono completamente improvvisati, poi arrivò la scrittura vera e propria, poi arrivarono i quartetti d’archi, il quintetto, la musica elettronica...

Quando invece l’incontro con Stroppini?

Intorno al 2007. Io avevo già iniziato a collaborare con la Rsi, se non erro lui era ancora assistente di regia. Non trovo altra parola se non ‘alchimia’ per dire del nostro legame molto forte, l’alchimia tra quello che lui scriveva e quello che io pensavo. Dal punto di vista musicale, è sempre stato molto bello lavorare con lui per il suo darmi costantemente grandi input, e sempre in modo molto naturale. Dal 2007 in avanti è stata una discesa libera, o un’ascesa continua che ci ha portati sino al teatro. In questo disco, in particolare, credo siano raccolti i lavori più importanti, per i quali ho dovuto comunque fare una selezione.

‘Vi scrivo dai fiordi occidentali islandesi’. Così iniziava il tuo racconto per laRegione, inviatoci dalla lontana Islanda. Era gennaio 2024 ed eri al Nord a cercare le musiche per il ‘Qivittoq’ di Stroppini: cosa ti ha lasciato quell’esperienza?

Mi ha lasciato spazi nei quali poter andare a costruire, da riempire attraverso una musica e un modo di lavorare che non avevo mai immaginato prima. L’Islanda mi ha dato pace e tranquillità mai raggiunte in precedenza, e non so se la cosa si debba a quella terra o ai vulcani, con tutto che i miei giorni islandesi coincisero con il disastro di Grindavik (la pesante attività vulcanica verificatasi in quella zona dopo circa 800 anni di silenzio, ndr). I vestfjord sono l’estremo nord dell’Islanda, a un passo dal Polo Nord, ospitano un lembo di terra mai calpestato dall’uomo, che puoi solo vedere. Tutto questo produce sensazioni che restano dentro di te in modo indelebile, e un modo di pensare, ragionare e scrivere la musica forse nemmeno contemplabili.

Anche la Carnegie Hall lascia qualcosa di indelebile in un pianista?

A parte la maestosità della struttura, la Carnegie Hall contiene la storia della musica. Lì hanno suonato i più grandi musicisti e compositori del mondo e nel momento in cui ti ritrovi su quel palco ti rendi conto che non è il legno degli altri teatri: ci hanno camminato Horowitz, Bernstein, Gesrshwin, Keith Jarrett, Oscar Peterson e ci devi fare i conti, nel momento in cui suoni e nei giorni prima. Devi mettere a nudo ogni tua paura e insicurezza ed essere determinato nello sfruttare un’esperienza che in qualche modo ti cambierà per sempre.

La Carnegie Hall, uno dei templi dell’improvvisazione jazzistica, pare una specie di cerchio che si chiude: riprodurre al pianoforte una cascata che scroscia o una cavalcata in mezzo alla valle non è forse, di suo, cosa da jazzisti?

Certamente, quella del jazz è una terminologia nella quale possono rientrare innumerevoli forme musicali. Forse mai come adesso il jazz può essere considerato come qualcosa di veramente trasversale.