laR+ Settimane Musicali

Piotr Anderszewski sul crinale di due mondi

Dal congedo romantico di Brahms all’irruzione moderna di Bartók: il grande pianista polacco ad Ascona il 2 ottobre

Piotr Anderszewski
(Simon Fowler)
30 settembre 2025
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Il dialogo intimo e profondo intessuto da uno dei massimi interpreti dei nostri giorni, tra i dipinti murali di una chiesa ticinese. Succede alla Chiesa del Collegio Papio di Ascona, dove il 2 ottobre le Settimane Musicali accolgono il pianista polacco Piotr Anderszewski, al suo terzo passaggio al festival (l’ultimo nel 2010). Non un banale virtuoso che limita a controllare tecnicamente l’esecuzione sotto il profilo della pulizia e del gioco muscolare delle dita, piuttosto un interprete di grande originalità – maniacale, rigoroso, intransigente – che sembra voler raccontare la molteplicità di prospettive, le relazioni sonore di un dato periodo storico. Scavando nel pensiero del compositore e portando alla luce i relativi tormenti personali, le angosce e le inquietudini: tanto che uno dei massimi registi musicali, Bruno Monsaingeon, gli ha già dedicato a suo tempo due intensi ritratti, confezionando una sorta di road movie ambientata nella sua Polonia natale.

Maestro Anderszewski, partiamo dal programma che suonerà ad Ascona: un confronto tra la malinconia dell’ultimo Brahms (Klavierstücke, Fantasie, Intermezzi) e il furore iconoclasta del primo Bartók, con le sue 14 Bagatelle op.6. Un’esplosione di creatività concentrata in pochissimi anni.

Mi interessava mettere a fuoco questo passaggio: Brahms scrive le ultime opere intorno al 1892-3, mentre le Bagatelle di Bartók sono del 1905: poco più di dieci anni in cui succede di tutto. Di punto in bianco si sgretola un mondo di certezze, di malinconie e ardori romantici che lasciano il posto alle nuove ricerche sul folclore musicale e alle brutali dissonanze. In un certo senso, Brahms ti spinge indietro e Bartók in avanti. Collocarsi al centro è molto difficile, ma eccitante.

Brahms specificò che questi ultimi brani erano delle confessioni solitarie, per le quali anche un solo ascoltatore è di troppo. Cosa deve fare allora l’interprete?

Il problema ogni volta è che c’è un pubblico in sala, magari attratto da questa idea di solitudine, ma che si presta a un ascolto collettivo. Non c’è una ricetta giusta, l’ideale è creare un senso di confidenza. D’altra parte, posso immaginare che Brahms li eseguisse nella sua piccola cerchia di amici alla quale prendeva parte Joachim, lo stesso che per la Sonata F.A.E. per violino gli suggerisce un significativo: Frei aber einsam, Libero ma solo. Brahms non era sposato, doveva essere legato a una libertà che però alla fine significa solitudine, tutto ciò mette anche tristezza. In fondo, l’ultimo dei pezzi che suono è un addio alla vita.

Perché ha scelto di intervallare questi brani, senza conservare la sua costruzione in cicli separati?

Perché cerco di raccontare una storia e la costruzione separata funziona meglio, dà maggiormente un senso di disarmante tenerezza e di congedo alle cose del mondo, in contrasto con l’irruzione di uno stile brutale di Bartók. È certamente uno shock per l’ascoltatore, ma questo è tipico di tante fasi di passaggio: se non ci fosse un padre non potrebbe esistere un figlio, esiste sempre un rapporto di continuità tra il prima e il dopo.

È la terza volta che lei suona ad Ascona: c’è qualcosa che la lega profondamente a questi luoghi?

Sì, conosco molto bene il Ticino, come la Val Maggia e la Bavona, ci sono venuto tante volte. Ho anche tanti amici qui e una delle mie idee è sempre stata quella di trasferirmi. In fondo sono sempre stato affascinato dai posti semplici e rurali dove magari manca l’elettricità, nei quali la natura rende più facile la concentrazione. E poi ci sono persone meravigliose.

L’eremitaggio in certi luoghi aiuta l’ispirazione. È così?

Si, anche se non ho sempre bisogno di un rapporto quotidiano con il pianoforte. Ci sono dei giorni in cui non mi esercito affatto, anche se quando lavoro intensamente su un autore ho necessità di sentire fisicamente il suono dello strumento. Studiare uno spartito in astratto non basta.

Lei ha anche origini ungheresi, a quale radice culturale si sente maggiormente ancorato?

Nel complesso mi sento europeo. Inizialmente sono stato imbevuto di cultura polacca, poi da giovane mi sono trasferito in Francia, anche se adesso, a Parigi, dove vivo, finendo per essere attratto dalla musica austro-tedesca, che è quella che suono maggiormente. Diciamo che l’ultimo paese che mi piace in questo momento sono gli Stati Uniti. Quando andai in California a perfezionarmi rimasi letteralmente disgustato dalla loro propensione a trasformare la musica in business e affari. Tutto questo (Trump in primo luogo) mi fa orrore, meglio il vecchio continente.