Dal mare di Livorno alla ‘tana’ di Giubiasco, dove Monica Giorgi ci racconta di tennis, anarchia, carcere, libertà. E della sua incantevole biografia
«Qui da giovane non mi sarei vista neanche dipinta. Ora invece ci vivo benissimo, è la mia tana. Però il richiamo alle radici mi porta spesso a Livorno, che mi restituisce il mare. Sono irrequieta, mi piace la spola, mi piace l’incontro». Il “qui” a cui si riferisce Monica Giorgi è Giubiasco, dove abita in un appartamentino accogliente e sorprendente come lei: una donna affabile dalle molteplici sfaccettature che nella vita è stata campionessa di tennis, anarchica, femminista, filosofa, insegnante, galeotta, esiliata. E molto altro ancora. Di tutto ciò racconta nell’incantevole biografia scritta a quattro mani con Serena Marchi ‘Domani si va al mare’ (Fandango, gennaio 2025), la cui prossima presentazione è in calendario sabato 10 maggio al cinema Lux di Massagno alle 17.30 organizzata dall’Archivio Donne Ticino. È un’esistenza fuori da qualsiasi schema e oltre la legge (ma non contro), quella di Monica. E mai piatta, come quel mare per cui ha sempre avuto un’attrazione irresistibile fin da piccolina, fin dal primo audace tuffo incoraggiato dal papà: tredueuno splash. Dalla sua casa a Giubiasco riavvolgiamo con lei il nastro della storia.
Monica non ha ancora sei anni quando il papà le dice che un giorno solcherà i campi in erba più belli del mondo, quelli di Wimbledon. Aveva ragione. «Sì, il mio babbo era uno spirito brillante e aperto – lo descrive Monica – anche se era cresciuto in un periodo storico, quello del fascismo, da cui aveva ereditato alcuni aspetti come la fede per la maglia azzurra e per l’inno nazionale di cui pure io avevo subito il fascino ma che poi ho rimesso in discussione. Mi spronava e mi coinvolgeva in moltissime attività. Andavamo insieme a pesca, in barca, a vedere il Livorno calcio. Insomma, mi trattava come se fossi il figlio maschio che si aspettava dopo due gemelle. Posso dire che mio padre mi ha dato lo slancio verso la società, verso il mondo esterno, anche se un po’ come proiezione di sé stesso».
Sua madre è per contro stata più protettiva, a tratti ingombrante. «Lei mi vedeva più fragile, pure nel tennis, anche se poi è diventata una mia sostenitrice entusiasta, a volte fin troppo, mettendomi a disagio. Le sono grata per avermi trasmesso una forte autorità femminile e un senso di libertà specifico per il mio essere donna. Ma quello con lei è stato un rapporto che ho anche vissuto come una gabbia, però una gabbia fertile, fruttuosa. Mi piace pensare che inconsapevolmente si fosse resa invisa per facilitare il taglio tetico, il distacco. Luisa Muraro, una filosofa che ha inciso molto sulla mia formazione, diceva che una madre deve essere “sufficientemente brava”: se è troppo brava è un problema, perché non facilita l’indipendenza. Mia madre lo è stata sufficientemente, e anche questo mi ha portata a volermi allontanare per scoprire il mondo».
Un mondo che Monica inizia a esplorare grazie al suo talento nel tennis, che la porta a partecipare ai più rinomati tornei internazionali. Al contempo legge molto, si interessa alla società, alle ingiustizie, agli oppressi. E talvolta sente qualche dissonanza tra i due universi. Ci sono momenti in cui riesce a utilizzare lo sport quale megafono per i valori che difende, come quando indossa in campo una maglietta con la scritta “No al razzismo” alla Federation Cup di Johannesburg nel ’72 in pieno regime dell’apartheid, gesto che le costerà la squalifica per un anno dalla Federtennis italiana. Da quell’ambiente resta anche delusa, come quando nel ’76 il suo amico Adriano Panatta decide di andare a disputare la finale di Coppa Davis – che poi la squadra italiana vincerà – nel Cile di Pinochet. «Amavo giocare a tennis, mi piaceva anche l’ambiente in cui mi trovavo. Da bambina certe cose ti capitano e le vivi – dice ora Monica –. E guardandole adesso le delusioni in cui sono incorsa sono anche state positive, perché invece di farmi sviluppare pregiudizi e allontanarmi da certi ambienti, le ho affrontate, anche quando ciò comportava sofferenza. Facevo una mediazione tra i contrari. Una mediazione vivente, non teorica».
Intanto al suo approccio al mondo dà un nome, anarchia: «Tutto è nato spontaneamente e perché ritengo che le parole – ma non le etichette – siano importanti. Quando mi è stato offerto di fare da coordinatrice dei circoli sportivi del Partito socialista ho rifiutato dicendo: “Grazie, ma non posso accettare, sono anarchica”. Averlo dichiarato mi ha portata ad assumermene la responsabilità. Allora ho voluto conoscere gli anarchici dall’interno, perché fin lì li avevo solo letti. La contingenza di campagne importanti in quegli anni, che coinvolgevano tutto il mondo progressista, mi ha portato a sviluppare un forte senso di giustizia. Non potevo ad esempio accettare la versione secondo cui Pinelli si era volontariamente gettato dalla finestra della questura, che Ulrike Meinhof si fosse suicidata in carcere. Ho quindi deciso di impegnarmi nella controinformazione».
E adesso? «Adesso, in età avanzata, la mia adesione all’anarchia, che da giovane era quasi fanatica, si è evoluta. Ho imparato da Simone Weil che l’ideale anarchico deve rimanere tale perché ci trasporta nell’eterno, in qualcosa di irrealizzabile che però agisce nella società, ma allo stesso tempo bisogna anche amare la realtà, perché voler realizzare l’ideale a tutti i costi può portare ad azioni criminali. La mia coerenza anarchica era più integralista da giovane, quando vedevo un netto confine tra potere e libertà, cosa che però non è così semplice perché bisogna tener conto della non-libertà degli altri, una consapevolezza che devo soprattutto allo studio del pensiero femminile».
Arrivano gli anni dal ’77 al 1980, “il tempo – dice Monica nel libro – si comprime e tutto finisce risucchiato in un buco nero”. Il conto glielo presentano all’alba del 30 aprile 1980 quattro carabinieri che le puntano il mitra addosso e l’arrestano. Contro di lei, che si era laureata con 110 e lode con una tesi su Gandhi e la nonviolenza, l’accusa è di associazione sovversiva e banda armata, partecipazione al sequestro del figlio di un imprenditore livornese e ferimento di un medico. Il tutto basato sulle contraddittorie dichiarazioni di un collaboratore di giustizia. «È stato uno shock, sono improvvisamente passata dallo scrivere per la rivista ‘Niente più sbarre’ al vivere dietro alle sbarre».
Una condizione che Monica definisce terribile, e che ha dato concretezza a quelle vicende di cui aveva tanto letto e sentito parlare. Resta chiusa per un anno in detenzione preventiva nel carcere di Livorno prima del trasferimento in quello di massima sicurezza a Messina. «In prigione a Livorno ho incontrato la popolazione carceraria che le statistiche dicevano essere composta prevalentemente dal sottoproletariato, era vero. Ho visto in carne e ossa i prodotti della delinquenza: prostitute, ladruncole, tossicodipendenti». E proprio l’incontro con una di queste ultime, Maddalena, è stata “una grazia inaspettata”. «Maddalena veniva da un mondo completamente diverso dal mio. Io non fumavo, non bevevo, dovevo essere forte per lo sport, lei invece era consumata dalla droga. L’ho trovata in una situazione di estrema fragilità. Ma l’amore e l’amicizia nascono soprattutto nei momenti così, quando non si è forti e non si vuole imporre qualcosa. Forse se l’avessi incontrata in un altro contesto non l’avrei sentita così affettivamente vicina. Era una realtà che c’era lì dentro e io volevo viverla». La forza che aiuta Monica a resistere viene anche dal grande moto di solidarietà che le si era creato intorno. «Le amiche, gli amici, la mia famiglia e soprattutto i compagni anarchici si sono subito mobilitati per me. Erano anni tremendi, ma c’erano anche spiragli di umanità, perché credevamo nella rivoluzione. Sbagliando forse, ma ci credevamo».
Al processo la sentenza è un macigno: 12 anni e mezzo da scontare. Ora le compagne di reclusione appartengono a formazioni combattenti in prima linea con cui lei non ha nulla da spartire. È annientata, perde ogni tratto di vitalità, si lascia andare. Poi il 28 aprile 1982 il presidente della giuria in appello riduce la pena della sentenza di primo grado a due anni. Li ha già scontati. Monica salta in piedi, aggrappata alle sbarre, e il suo urlo squarcia l’aula: “Domani si va al mare”. Fuori però la gioia non dura a lungo. Dopo qualche mese viene a sapere che il pubblico ministero del processo di appello ha inoltrato in Cassazione la domanda di revisione della sua sentenza e le viene “paura, tanta, estrema, fottuta paura”. «A quel punto ero paranoica – rileva Monica –. Non avevo più alcuna fiducia nelle istituzioni. Erano gli anni del pentitismo, autori di crimini efferati che attribuivano ad altri responsabilità, imbeccati dal potere che intendeva fare tabula rasa dell’autonomia e di tutto ciò che le gravitava intorno». Monica, che non voleva fare nemmeno un giorno di prigione in più, decide di lasciare l’Italia con un passaporto falso.
A quel punto, inaspettatamente, a venirle in soccorso è il matrimonio con un bellinzonese. «Questa è la cosa più divertente. Avevo sempre considerato il matrimonio come la tomba dell’amore, e invece mi ha liberata. È stato tutto congegnato dai miei compagni, io non ci pensavo nemmeno. “Non ti preoccupare – mi hanno detto –, troviamo qualcuno che ti sposi così diventi cittadina svizzera e anche se in Italia si riapre qualcosa, la Confederazione non ti farà estradare”». E nozze sono state. «Bak – da Bakunin, all’anagrafe Marco Cerutti – mi ha presa a scatola chiusa. Certo, sapeva della mia vicenda, ma non ci eravamo mai incontrati. Aveva una compagna che, non conoscendo la storia, si era giustamente chiesta di cosa si trattasse, e lui alla propria famiglia ha raccontato che con me era stato un colpo di fulmine. Diceva che semmai sarei dovuta essere io a raccontare la verità un giorno. Da un lato mi stupiva questo enorme gesto di solidarietà di Bak, che dice sempre: “L’ho sposata semplicemente perché era la cosa giusta da fare”. È un dono enorme incontrare una persona così. Ma d’altro canto da parte degli anarchici una cosa del genere me l’aspettavo. Con Bak sono stata felicemente sposata e felicemente divorziata, perché poi ho voluto svincolarmi, io non sono fatta per la convivenza. Sono fatta per affidarmi al caso, all’accidentalità, a quello che capita e ti stupisce».
‘Domani si va al mare’ è tra le tante cose anche una grande dichiarazione d’amore: amore per il tennis, per la libertà, per la giustizia, per Kafka – che Monica “porta” da Mike Bongiorno a ‘Rischiatutto’ –, per Maddalena, per il bellissimo Manrico, per il piccolo Podi incontrato in Sri Lanka e che diventa suo figlio. Per la vita nella sua complessità. Ma cosa significa amore? «Innanzitutto cosa non significa: non significa possesso, non significa solo tarallucci e baci – considera Monica –. Scomodo il testo di una mistica per rispondere: il settimo nome dell’amore è “inferno”. Perché c’è anche questo nell’amore: il dolore, la frustrazione, la rabbia. Credo che se al posto della parola Dio si mettesse il termine amore, tornerebbe tutto lo stesso. Ed è importante comprenderne le varie sfaccettature, anche quelle più contraddittorie. Uno degli strumenti che a me ha permesso di farlo è stato questo libro. Sono davvero molto grata a Serena che è stata una compagna di doppio eccezionale, mi ha lasciata scorrazzare per poi ricomporre una vita caotica che io da sola mai avrei saputo ordinare e di conseguenza conoscere», confida Monica, che conclude: «Trovare qualcuno che ti dà ordine, pure questo è amore».