Più tenace di quella dell’uomo. Da Pozo de Vargas al Laténium di Neuchâtel, l’archeologia che indaga il passato recente e restituisce storie di vita
Quando si parla di archeologia, si pensa solitamente a vestigia di templi, rovine, scavi intesi a recuperare frammenti di civiltà antiche. Eppure c’è anche un’archeologia che indaga il passato recente, spesso mettendolo in relazione con il presente. L’archelogo scava gli strati del terreno, perché la memoria della terra è più tenace di quella dell’uomo. La terra non mente. E, come afferma Georges Didi-Hubermann nel suo Ecorces (Les Editions de Minuit, 2011), guardare le cose da un punto di vista archeologico vuol dire confrontare ciò che oggi è sopravvissuto con ciò che sappiamo essere scomparso.
Per fare un piccolo esempio personale: ho avuto l’opportunità qualche anno fa, in occasione di un breve soggiorno in Argentina, di visitare il Pozo de Vargas, alla periferia di Tucuman, dove, nei terribili anni della dittatura di Videla, erano stati scaraventati i corpi, talvolta ancora vivi, dei desaparecidos (si parla di 30’000 scomparsi) e dove alcuni archeologi lavoravano a disseppellire i resti ossei dei sepolti, per ridare loro un’identità, per tentare di riportare alla luce storie di vita; e, oltre al materiale umano, quei santi antropologi-archeologi disseppellivano frammenti di tessuti, scarpe, oggetti personali delle vittime.
Oggi però sono qui a Neuchâtel, al Laténium, il museo archeologico più bello della Svizzera (e questa bellezza, insieme alle fioriture primaverili che si vedono qui intorno, contrasta con il tema della mostra), dove saranno esposti fino a domani oggetti ritrovati in luoghi di sofferenza e di morte, cioè in campi di concentramento, di lavoro forzato e di prigionieri di guerra, presenti in tutta Europa nel ventesimo secolo. La mostra sta per finire; ma in realtà non è finita, perché si prolunga nel ricco catalogo curato da Géraldine Delley. La lettura di questo libro, infatti, offre, mediante codici inseriti accanto alle immagini riprodotte, la possibilità di prendere visione anche di importanti contenuti multimediali.
Laténium, Lionel Wettstein
Decorazioni di Natale realizzate dai detenuti del campo di lavoro forzato di Rathenow
Il libro prende il via con gli oggetti elencati da un poeta tedesco: Günter Eich, internato in un campo di prigionia in America. Ecco le prime due quartine della poesia, intitolata “Inventario” e diventata celebre. L’ho presa, in traduzione italiana, da Poesia tedesca del dopoguerra, antologia curata da Gilda Musa per l’editore Schwarz e pubblicata a Milano nel 1958:
Questo è il mio berretto,
questo il mio pastrano,
ecco il mio rasoio
nella borsa di tela.
Una scatola di conserva:
il mio piatto, il mio bicchiere,
nella latta ho scalfito
il mio nome.
Questi oggetti, spogliati di ogni forma di lirismo, ridotti, in un elenco minimalistico, al loro valore d’uso, fanno pensare agli oggetti presenti in mostra, scoperti dagli archeologi dei campi. Nel catalogo sono riprodotti non solo oggetti come quelli della poesia, ma anche d’altro tipo. Per esempio un anello di fabbricazione artigianale, una figurina a forma di pesce realizzata con un pezzo d’alluminio probabilmente recuperato in una fabbrica d’aerei, uno specchio da tasca messo insieme con pezzi di specchio rotto, un piccolo cuore di plastica, decorazioni natalizie fatte con alluminio recuperato, un brandello di lettera che non è mai stata spedita, foto scattate di nascosto da un prigioniero, due armoniche a bocca, un libretto di ricette di cucina scritto a matita dalle deportate di Ravensbrück (non certo destinate, queste ricette, a essere sperimentate sul posto ma a far sopravvivere il concetto di piacere, nel tentativo di lottare contro la disumanizzazione messa in atto dagli aguzzini). E ancora: figurine di terra cotta dipinta o un rossetto, una spilla e un orecchino trovati durante gli scavi ad Auschwitz – ultime tracce lasciate dalle prigioniere assassinate nella camera a gas adiacente ai crematori; anche un piccolo crocifisso, una medaglia con impressa l’immagine della Madonna. E mi limito a citare gli oggetti che più mi hanno colpito, perché parlano del desiderio di bellezza e di spiritualità che non si estingue mai, neanche all’inferno.
Nell’Epilogo del libro è riprodotta una targa che segnala il “bureau” di un centro d’internamento di prigionieri di guerra a Saint-Maurice, nel basso Vallese. Guardando quest’oggetto ho pensato a mio padre, ridente nel sole, in “tenuta ex” – così si chiamava in gergo –, che in una vecchia foto dai margini frastagliati tiene in braccio un neonato ebreo, di nome Nathan, certo più piccolo di me bambino, che in un’altra foto appaio con in testa un casco e, ad armacollo, un fuciletto di legno. Mio padre, in servizio militare, faceva la guardia agli internati nel campo di Agnuzzo. E forse io, cucciolo di pochi anni, ero geloso di quel fagotto bianco che mi faceva concorrenza...
Pure gli Svizzeri, dunque, hanno ricordi di guerra; anche se, per fortuna, non imbrattati di sangue.
Dans les camps. Archéologie de l’enfermement, a cura di Géraldine Delley, Laténium, Parc et musée d’archéologie, Hauterive-Neuchâtel, 2025.
Il catalogo, ancora disponibile. La mostra si è chiusa il 27 aprile