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Neutralità: il mito che resiste a ogni realtà

La discrepanza tra la retorica storica e le pratiche contemporanee sembra non favorire un dibattito aperto

Una riflessione sul rapporto della Svizzera col mondo
(Keystone)

Nel discorso di Capodanno del 1945, il presidente svizzero Eduard von Steiger difende con forza l’operato del Paese durante la guerra, respingendo le accuse di collaborazionismo delle potenze alleate. Di fronte all’emarginazione internazionale, la Svizzera reagisce rafforzando la propria neutralità, elevandola da strumento diplomatico a pilastro identitario. Con l’avvio della Guerra fredda, lo scontro tra blocchi sembra confermare la validità della linea elvetica, che unisce neutralità assoluta e difesa militare. Gran parte della popolazione dà per scontato che l’immagine maturata dalla Svizzera durante la guerra, insieme alla sua scelta di restare neutrale, debba continuare anche nel nuovo contesto. Ancora nel 1989, il governo lancia l’Operazione Diamante, una serie di celebrazioni non per la fine della Seconda guerra mondiale, ma per il suo inizio. È l’elogio della mobilitazione del 1939 e della coesione nazionale. Quasi fuori tempo massimo, tre mesi prima della caduta del muro di Berlino, il Paese pare rivendicare, contro tutto e tutti, la bontà della scelta isolazionistica e dell’adagio secondo cui «la Svizzera non ha un esercito, la Svizzera è un esercito». Una sorta, dunque, di “nozze di diamante” tra la nazione, il suo esercito e la sua neutralità armata.

Eppure, a uno sguardo più attento, questa narrazione si scontra con la realtà della politica estera svizzera del Secondo dopoguerra. Dietro l’apparente continuità si nasconde infatti una profonda trasformazione. La neutralità, per quanto esaltata pubblicamente come principio immutabile, ha subito nel tempo adattamenti significativi, frutto di compromessi, esigenze pratiche e pressioni internazionali. Il divario tra ciò che viene raccontato e ciò che realmente accade genera un dualismo che, per decenni, ha caratterizzato la posizione svizzera nel mondo. È proprio questa asimmetria tra retorica e realtà che merita oggi una riflessione. Perché la Svizzera continua a raccontarsi come un’isola immobile in un mondo in movimento? Perché l’immagine di una neutralità integrale, quasi sacrale, riesce ancora ad avere un tale potere sull’opinione pubblica e sul discorso politico?


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L’allora presidente Eduard von Steiger

Un po’ di chiarezza sul concetto

La neutralità, contrariamente a quanto spesso si crede, non è un principio assoluto ma una strategia flessibile pensata per i contesti di guerra. Si tratta di un concetto strumentale che serve alla sicurezza di un Paese. Secondo il diritto internazionale, codificato nelle Convenzioni dell’Aia del 1907, uno Stato può dichiararsi neutrale e godere di diritti e doveri specifici: astenersi da supporto militare, impedire l’uso del proprio territorio da parte dei belligeranti, ma anche mantenere il commercio con tutti gli attori in conflitto. Si tratta della cosiddetta “neutralità occasionale”, che si attiva solo in tempo di guerra. Riconosciuta nel 1815 al Congresso di Vienna, la neutralità svizzera è peculiare perché ha un carattere “permanente” che trascende l’aspetto occasionale e comporta di dichiarare la propria astensione dalla guerra già in tempo di pace. Per gli svizzeri, quindi, la neutralità ha una dimensione politica che precede lo scoppio della guerra e una giuridica che entra in vigore con il verificarsi della guerra. La politica di neutralità ha la funzione di proteggere la credibilità del diritto alla neutralità.

La neutralità è permanente solo fino a quando non è violata. Una volta attaccati gli svizzeri sono liberi di scegliersi qualsiasi alleato. Nel rispetto formale della neutralità, le autorità si trovano a dover distinguere tra accordi difensivi legittimi e intese preventive che avrebbero violato il principio di neutralità. Tutto dipende dalla percezione della minaccia: più grave è il rischio per la sovranità nazionale, più si giustifica, secondo i decisori, l’avvio di contatti riservati con potenziali alleati. Una strategia discreta ma controversa, che la Svizzera mette in atto sia nella Prima che nella Seconda guerra mondiale, quando l’accordo militare segreto tra Confederazione e Francia, promosso dal generale Guisan, è reso pubblico dai tedeschi. Anche durante la Guerra fredda, sebbene non sembri che si sia giunti a un accordo segreto, le forze armate elvetiche sono preparate all’eventualità di una partecipazione alla Nato in caso di invasione sovietica dell’Europa occidentale. In pratica, il governo è pronto a praticare due tipi di politica: una valida durante la neutralità, l’altra dopo l’abbandono della neutralità. Negli anni il governo non ha evitato di pubblicizzare sia i suoi tentativi di formare alleanze preventive, sia il fatto che, una volta attaccata, la Svizzera avrebbe stretto un’alleanza. Al contrario, l’idea della neutralità permanente fu comunicata in modo da escludere qualsiasi tipo di cooperazione militare. Il linguaggio usato pubblicamente si scontra fondamentalmente con la politica reale.

Le risposte alla sfida della multipolarità

Il 1945 è stato uno spartiacque nelle relazioni internazionali. Almeno in Europa, tramonta l’era dello Stato nazionale classico, della politica dell’equilibrio di potenza e delle tradizionali relazioni interstatali bilaterali. D’ora in poi, con il forte sostegno americano, si è affermata la tendenza al multilateralismo e all’integrazione sovranazionale. In questo contesto, la neutralità appare anacronistica, non più giustificata da un sistema che promuove la sicurezza collettiva e il rifiuto della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti. Messa all’angolo da questa realtà, la Confederazione attua una politica di accordi bilaterali e propone i suoi buoni uffici, in una pratica di neutralità definita “solidale”.

Con l’abbandono definitivo del progetto di dissuasione nucleare e il clima di distensione internazionale, nel 1973 la Svizzera avvia una profonda revisione della propria politica estera. Nasce così il concetto di “politica di sicurezza”, che distingue tra difesa militare e iniziative diplomatiche volte a promuovere una pace duratura. La priorità si sposta nettamente su quest’ultimo fronte, come dimostra l’impegno svizzero negli accordi di Helsinki del 1975. Il rispetto del diritto internazionale viene affiancato dalla promozione dei diritti umani, visti come strumenti di sicurezza collettiva. È l’inizio di una nuova concezione della neutralità: non più semplice astensione dai conflitti, ma contributo attivo alla stabilità internazionale – nella speranza che, rendendo il mondo più sicuro, il ricorso al diritto di neutralità, o persino il suo abbandono, diventi sempre meno necessario.

Nel 1990, il rapporto di politica di sicurezza del Consiglio federale segna il definitivo cambiamento di direzione, passando da una politica di sicurezza indipendente a una politica di cooperazione, che un decennio più tardi avrebbe portato alle linee guida strategiche sulla “Sicurezza attraverso la cooperazione”. Si danno, a questo proposito, nuovi compiti all’esercito, chiedendogli di impegnarsi seriamente per promuovere la stabilità internazionale. Dal 1996, la Confederazione aderisce al programma Partenariato per la pace della Nato. Nel 1999, con la creazione della Swisscoy, soldati svizzeri partecipano per la prima volta a una missione di pace multinazionale in Kosovo. L’esito di questo indirizzo politico inedito è l’adesione della Svizzera all’Onu nel 2002, la partecipazione di ufficiali elvetici a diverse missioni delle Nazioni Unite e l’adozione di sanzioni contro vari Paesi.


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Francobollo per l’adesione elvetica all’Onu

La rivincita del discorso tradizionale

Le pressioni verso una politica di neutralità attiva che vada a puntellare il rispetto del diritto internazionale sono provenute da diversi fronti, dall’interno e dall’estero. A livello nazionale è soprattutto il Partito socialista a chiedere un serio impegno per i diritti umani. Sono i consiglieri federali del Ps che, come ministri degli Affari esteri, danno una spinta più forte in questa direzione. Ad opporsi, fin dall’inizio, sono i gruppi più tradizionali della destra politica che considerano il sostegno alla Croce Rossa come l’unico impegno per i diritti umani compatibile con la neutralità. L’Azione per una Svizzera neutrale e indipendente (Asni), un’associazione presieduta a lungo da Cristoph Blocher, nasce proprio allo scopo di difendere la tradizione bilaterale e per opporsi all’integrazione della Svizzera in istituzioni politiche sovranazionali.

Questa visione conservatrice ha beneficiato della narrazione ufficiale promossa per decenni dalle autorità federali, che hanno evitato di distinguere tra alleanze bilaterali, multilaterali o strumenti di sicurezza collettiva, alimentando così un’immagine identitaria ben radicata. Una narrazione che, se da un lato ha fornito rassicurazioni in un contesto di incertezza, dall’altro ha ostacolato un dibattito serio e aggiornato sul ruolo della Svizzera nel mondo.

Martedì 13 maggio 2025 alle ore 18.30, la Biblioteca cantonale di Bellinzona ospiterà un dibattito dal titolo ‘La neutralità svizzera messa alla prova’. Interverranno Franca Verda, membro di comitato del Club Plinio Verda; Maurizio Binaghi, storico, professore al Liceo di Lugano 1 e presidente dell’Associazione ticinese insegnanti di storia; Orazio Martinetti, storico e giornalista; Stefano Vassere, direttore delle Biblioteche cantonali.