Tenendo in mano i fili dei movimenti femministi più radicali, Giulia Siviero (ospite in Ticino) tesse una genealogia feconda per affrontare il presente
È un’immagine su cui ogni mattina al proprio risveglio Giulia Siviero posa gli occhi, quella di una donna con il passamontagna che allatta un neonato e che ha scelto come copertina del suo “Fare femminismo”. Nel libro edito da nottetempo nel 2024 l’autrice e giornalista italiana racconta le pratiche di una costellazione di movimenti di donne nel tempo e nel mondo, in particolare quelle rimaste più ai margini e generate dalla capacità di intrecciare pensieri e parole a una creatività militante. Il saggio, che sarà presentato giovedì 5 giugno al Canvetto Luganese alle 20.30 dalla stessa Siviero, ospite del collettivo ‘Io l’8 ogni giorno’, costituisce un’operazione più genealogica che storica e si prefigge di rimettere al mondo proprio queste pratiche spesso dimenticate.
«Si tratta di un poster che ho preso anni fa alla Biennale e che è appeso in camera mia», ci dice Siviero dell’opera creata dalla fotografa venezuelana femminista Argelia Bravo in cui la scrittrice riconosce il potente simbolo di una donna che nutre il cambiamento.
«L’ho scelta non solo perché nel libro parto dal racconto di mia madre e finisco con quello delle Madres de Plaza de Mayo che a un certo punto decidono di staccarsi dalla maternità biologica per stabilire altre forme relazionali e di lotta che nel femminismo sono fondamentali e che creano legami potentissimi, ma anche perché il passamontagna rimanda all’anonimato che è una pratica del femminismo in contrapposizione con quelle molto in voga in questo momento storico che tendono ad affidarsi a delle figure singole, spesso molto famose, che prendono parola per tutte ma che spesso non dicono parole che sono il frutto di un lavoro e di relazioni collettive. E il femminismo o è collettivo o non è».
Cercando di tenere tra le mani il filo della teoria dei movimenti più radicali, Siviero ha scelto di raccontare delle storie puntuali, declinandole in sei azioni guida. La prima di queste azioni è la riappropriazione della parola che passa soprattutto dalla pratica dell’autocoscienza in cui le donne si tolgono dalla posizione di essere parlate da altri e parlano di sé stesse, facendo della propria esperienza una misura del mondo; si sfilano le lenti che gli uomini hanno consegnato loro. «L’autocoscienza è stata una delle pratiche fondamentali del femminismo, che nasce dalla “pratica madre” del separatismo – articola Siviero –. Negli anni intorno al ’68 le donne partecipavano al movimento misto di ribellione verso l’ordine costituito, condividendone anche gli obiettivi e cercando di portare le loro istanze, le quali però non venivano quasi mai accolte. Erano insomma tenute lontane dalla partecipazione politica sostanziale e da “angeli del focolare” erano diventate “angeli del ciclostile”. Decisero dunque di interrompere questa relazione, di ritrovarsi in una stanza tutta per loro e di cominciare a parlare con una voce non più ventriloqua, ma a partire dal proprio vissuto personale e dal proprio pensiero, rendendosi così conto per la prima volta che l’esperienza che vivevano tutte era condivisa». Fu una presa di coscienza, afferma Siviero, che portò al riconoscimento del fatto che erano state storicamente definite a partire dall’uomo e che non erano più disposte a farlo. Detta altrimenti, «l’autocoscienza fu una pratica fondamentale per soggettivarsi politicamente, per cominciare a dire parole proprie senza applicare schemi che erano stati pensati da altri», riassume l’autrice.
Gli anni Settanta sono stati anche quelli dello sviluppo di diverse pratiche di riscoperta e riappropriazione del corpo da parte delle donne, corpo femminile che era principalmente un affare da uomini, mariti, amanti e ginecologi, nonché un mistero per la maggior parte delle donne. Da allora le cose sono parecchio cambiate, sostiene Siviero, «nel senso che c’è molto più sapere intorno ai propri corpi e più consapevolezza. L’autodeterminazione è diventata una parola centrale». Ma c’è un grande “però”: «Pensiamo ad esempio al fatto che in Italia non esiste l’educazione sessuale nelle scuole, questo è un elemento che contribuisce ad alimentare una subcultura dell’ignoranza rispetto alla conoscenza del proprio corpo e alle sue potenzialità, ma anche rispetto alla propria salute e sicurezza con tutte le conseguenze che vediamo anche in questi giorni». Il riferimento è al femminicidio di una ragazza di appena 14 anni, Martina Carbonaro, avvenuto nei pressi di Napoli la scorsa settimana: «L’assenza di un’educazione sessuale e femminista a partire dalle scuole credo che abbia un ruolo in tutto questo, in questa violenza che non si placa», osserva la giornalista, che rispetto alla questione del corpo ritiene «importantissimo per i movimenti femministi recuperare la pratica dell’autogestione che aveva molto più spazio in passato. Scendere in piazza per chiedere l’educazione sessuale nelle scuole al governo Meloni che si affida a chi sostiene che le donne siano “cattive” non credo sia una grande idea – dichiara –. Dovremmo invece organizzarci nei nostri spazi senza pretendere o accontentarci che venga tutto dalle istituzioni».
Un’altra delle pratiche sondate nel volume è quella degli scioperi femministi che, indica l’autrice, ampliano la definizione di lavoro comprendendo al suo interno anche le esperienze considerate tradizionalmente come non economiche, non produttive per il capitale, quelle storicamente escluse, invisibilizzate, ignorate e svalutate. È un’accezione di lavoro che intende dunque anche quello informale, sessuale, domestico e riproduttivo, “quel lavoro che ha a che fare con la cura, l’istruzione e l’educazione dei bambini e delle bambine, con l’accudimento di chi per età o condizione fisica non può più produrre o generare profitto. Un lavoro che il capitalismo esternalizza senza pagarlo alle donne affinché sostengano in casa chi fuori casa lavora ‘davvero’”. Questo perimetro così ampliato, scrive l’autrice, crea una mappa molto concreta e completa delle differenti forme di sfruttamento e di violenza: quella economica, quella delle ore di lavoro a casa non riconosciuto, quella dello smantellamento della sanità e del welfare, ma anche quella poliziesca, istituzionale, abilista, razzista, ambientale e coloniale. Di fatto, analizza Siviero, «la pratica dello sciopero letto in senso intersezionale così come è stato pensato e teorizzato all’interno dei movimenti femministi più forti che oggi sono quelli che arrivano dal Sud America è uno strumento estremamente efficace perché scende sullo stesso piano del sistema capitalista. Non dà una lettura semplicistica, non si limita ad alcune soggettività, ma ne connette molte differenti ed è altrettanto articolato del sistema contro cui lotta».
Parlando delle pratiche di azione diretta, tra le cose che Siviero dice di aver imparato annovera la presa di coscienza che la rabbia non sempre acceca, ma può anche aguzzare la vista e può essere un sentimento nutriente, un’opzione praticabile e in certi tempi doverosa. «Penso che ci dobbiamo rieducare a una logica del conflitto. Non dello scontro – specifica –, il cui obiettivo è che una delle due parti soccomba. Il conflitto è invece qualcosa da cui si esce tutti e tutte trasformate». La rabbia, riprende Siviero, «è sempre stata ricacciata come una patologia individuale in modo specifico per le donne, mentre assegnarle un valore politico significa innanzitutto disimparare a non batterci, disimparare ad accettare in modo acritico le cose che ci succedono intorno, disimparare a rispondere solamente scendendo in piazza a rivendicare che dall’alto vengano concessi dei diritti». Rabbia che si connette inevitabilmente alla parola violenza, ma quella femminista è ben diversa da quella dell’oppressore, è autodifesa della vita, dice l’autrice, e non ha mai ucciso nessuno: «Spesso ci dimentichiamo che c’è una violenza primaria che viene agita anche dalle istituzioni. Alcuni femminismi, quelli che ho scelto di raccontare, sostituiscono la speranza che le cose cambino con la forza necessaria per riuscire a cambiarle, si affidano a pratiche antagoniste, rifiutano la pacificazione e praticano il conflitto e la disobbedienza, superando a volte anche la legalità. E poi, non meno importante, ci sottraggono dal galateo della femminilità che non è altro che uno strumento di addomesticamento usato dal patriarcato».
Come accennato il libro si chiude con la toccante storia delle Madres dei dissidenti scomparsi durante la dittatura militare in Argentina le quali rimettono in gioco quella funzione materna tanto esaltata dalla retorica del potere ribaltandola, moltiplicandola, portandola all’eccesso nel farsi politicamente madri di tutte e tutti. Per le Madres, dichiarano loro stesse, “gli unici morti sono i militari assassini, morti in vita; i nostri figli invece sono vivi in ogni occupazione di terra, in ogni blocco stradale, in ogni mobilitazione, in ogni richiesta di giustizia, in ogni giovedì in piazza”. In merito alla decisione di terminare con questa storia, Siviero spiega che quando stava scrivendo il libro «era già in corso il genocidio a Gaza ed ero cosciente che i movimenti delle donne palestinesi hanno una storia ricchissima e lunghissima fatta soprattutto di pratiche, però in quel momento non me la sentivo di accostare questa storia alle altre, confondendola. Quindi per me chiudere il libro con le Madres, raccontando il modo in cui hanno risignificato il concetto di memoria, era in qualche modo un rimando anche a tutto quello che sta succedendo oggi in Palestina». La memoria per le Madres non è infatti qualcosa che si fa monumento, che celebra solamente il passato e i morti, «ma è una memoria soprattutto che sa restare viva e dinamica, che sa rendere fecondo il passato per fare in modo che quello che è accaduto non succeda mai più».
Si capisce dalle sue parole, e nel libro lo dice esplicitamente, per Siviero non tutti i femminismi hanno la stessa valenza: «In effetti il mio posizionamento è molto chiaro. Innanzitutto penso che il femminismo non sia una garanzia, ma sia un conflitto da portare avanti continuamente. Non condivido i femminismi che legano la libertà alla parità, i femminismi che hanno nelle istituzioni, nello Stato e nei suoi strumenti una fede incrollabile. Non mi sento vicina ai femminismi che chiedono quote e più donne nei posti di potere senza che questo sia accompagnato da pratiche che fanno la differenza per tutte. E sono molto lontana dai femminismi che, nonostante la formazione sia avvenuta lì, parlano in nome di tutte coloro che hanno un utero e non riconoscono la connessione con altre lotte, con altre soggettività. Per questo motivo penso che oggi le istanze più efficaci si trovino nei Paesi che il nostro Occidente ha sempre considerato come ai margini del mondo, ovvero i Paesi dell’America Latina, che non a caso stanno mettendo al centro le soggettività più marginalizzate». Per la prima volta, conclude Siviero, «si tratta di femminismi che sanno essere sia radicali che di massa e penso che sia questa la genealogia a cui noi oggi ci dobbiamo rivolgere se davvero vogliamo nutrire il cambiamento».