Con Franco Cavalli percorriamo alcune pagine della sua intensa e operosa vita, raccontata nell’autobiografia di ‘un militante tra medicina e politica’
“L’importante nella vita è avere una visione a cui tendere. Altrimenti si rischia di non andare da nessuna parte”. Considerando quanto Franco Cavalli sia riuscito ad andare lontano nella realizzazione di fondamentali progetti in Ticino e altrove nel mondo, più che come un consiglio è da accogliere come un regalo il fatto che giorno dopo giorno abbia sempre cercato di applicare appassionatamente questa sua massima. Quale sia la propria visione lo ha sempre esposto puntualmente con fatti e parole, quelli che ora, all’alba degli 83 anni, ha deciso di ordinare e raccontare nella vivace e coinvolgente “Tante vite in una. Autobiografia di un militante tra medicina e politica” edita da Casagrande. Oncologo di fama internazionale, parlamentare a tutti e tre i livelli istituzionali sempre marcatamente progressista, attivista umanitario, nel libro – che sarà presentato il 23 maggio alle 18.00 al Lac di Lugano, e il 3 giugno al Teatro Dimitri di Verscio – Cavalli passa in rassegna queste sue attività e molto altro: ci sono gli incontri con personaggi celebri, sia quelli avvenuti (da Basaglia a Gorbaciov) che quelli con rimpianto mancati (Fidel Castro); i viaggi ai quattro angoli del pianeta; la fondazione in Nicaragua di Amca, l’Associazione per l’aiuto medico in Centro America che si appresta a celebrare 40 anni; le sue profonde amicizie, due fra tutte quelle con Rossana Rossanda e Dick Marty; lo spirito “ultras” che si risveglia a ogni partita dell’Ambrì Piotta tanto che al suo funerale ha previsto che oltre a “L’Internazionale” si suoni pure “La Montanara”; il tragico annegamento di suo figlio Nicola e la forza che la sua grande famiglia e la comunità gli hanno dato per riuscire a conviverci. Il volume restituisce otto decenni di storia personale, locale e mondiale vissuti con un occhio sempre attento all’attualità, in cui si intersecano riflessioni su passato, presente e futuro, e una grande certezza: “Fino alla fine dei miei giorni continuerò a pormi delle domande”. Col professor Cavalli ripercorriamo insieme alcune pagine di questa sua operosa e multiforme esistenza.
Lei che si è sempre battuto contro i sussidi alle scuole private, da ragazzo ha frequentato il ginnasio e il liceo al Collegio Papio. Ma solo perché, spiega, era l’unica soluzione per poter studiare in quanto la sua famiglia non poteva permettersi di mandarla a Lugano e per i residenti (maschi) di Ascona il Papio era gratis. I suoi ricordi del “regime scolastico estremamente repressivo” di allora sono pessimi. Ma proprio lì un insegnante di filosofia – sacerdote che in seguito si è spretato – le ha fatto conoscere Marx, tra gli elementi che l’hanno portata sulle barricate. Come ha vissuto la sua giovinezza pre-sessantottina?
In quegli anni ho cominciato a fare alcune riflessioni, sia per le esperienze negative al Papio che mi fecero dubitare della bontà dei suoi religiosi – i benedettini di Einsiedeln –, sia per il contatto con alcuni stimoli intellettuali provenienti da quell’insegnante e da altri miei compagni. Finito il Papio, nell’autunno del ’61 ho iniziato il mio percorso accademico in medicina a Berna. Lì sono entrato nel comitato direttivo dell’Unione svizzera degli studenti e sempre più spesso capitava che passavamo le notti a discutere animatamente di quanto avveniva nella società. Era il periodo della guerra in Vietnam, che rappresentò l’elemento più forte per la nostra politicizzazione. Era anche il periodo in cui in Svizzera si respirava un forte razzismo anti-italiano che colpiva in parte pure noi ticinesi. Il fermento intellettuale era enorme e c’era un incessante dibattito che coinvolgeva quasi trasversalmente tutti gli studenti, una cosa inimmaginabile adesso. Poi, dopo il ’68, ci fu il riflusso, la radicalizzazione. Alcuni intrapresero la lotta armata, mentre molti altri si allontanarono completamente dalla politica.
Nei suoi studi inizialmente si era orientato alla psichiatria, ambito in cui ha fatto due anni e mezzo di formazione. Con un gruppetto di compagni, ispirati da Franco Basaglia, pianificavate “la conquista dell’ospedale psichiatrico di Mendrisio”. Poi il gruppetto è andato dissolvendosi e al contempo lei si è accorto che non la entusiasmava l’idea di ascoltare le piccole nevrosi della buona società. Si orientò quindi verso l’oncologia perché capì che il cancro è in buona parte una malattia sociale, ma affrontabile solo con metodo scientifico.
Sì, questo è proprio il punto centrale del mio divenire. Come spesso ripeto, vivo una sorta di schizofrenia tra l’essere “un animale politico” e la necessità di affidarmi a dati scientifici solidi. Inizialmente nell’esperienza in psichiatria avevo trovato il confronto con una realtà di esclusione e di maltrattamenti che avevo preso a cuore. C’era anche il movimento emergente dell’antipsichiatria, che però mi accorsi non essere debitamente suffragato sul piano scientifico. Questo, insieme al fatto che il gruppetto che avevamo creato si era sfaldato e quindi veniva meno la prospettiva di poter fare in Ticino quello che Basaglia aveva fatto in Italia, mi ha mandato in crisi. In quel momento ho incontrato il professor Kurt Brunner, fondatore dell’oncologia in Svizzera e con una doppia laurea in economia sociale e in medicina. Capendo la mia condizione mi ha detto: “Venga da me in oncologia, è il suo posto”. Così ho fatto. È stata una scelta di cui non mi sono mai pentito.
Ed è così che è diventato il pioniere dell’oncologia in Ticino: tutto ciò che esiste ora deriva dal fatto che ha deciso di investire completamente sé stesso – lavorando in modo forsennato anche per 36 ore filate – per sviluppare, partendo dal nulla, un servizio oncologico cantonale vicino ai pazienti e un polo di ricerca ora tra i più importanti al mondo: parliamo di Iosi, Ior e Irb. Non sempre in questo cammino ha avuto la strada spianata, anzi. Cosa l’ha motivata a portare avanti l’impresa?
Ritengo di avere un carattere un po’ donchisciottesco, ciò che mi porta a buttarmi a capofitto in sfide quasi impossibili. In questo caso hanno giocato un ruolo determinante il mio attaccamento al Ticino, dove volevo far crescere i miei figli, e il desiderio di creare qualcosa qui. Quando ero a Berna avevo visto come il fatto che nel nostro cantone non esistesse nulla sul piano della medicina oncologica comportasse una grossa sofferenza per molta gente che o non veniva trattata o per farlo doveva spostarsi a Zurigo, a Berna o in Italia. Ho sempre pensato che per me la più grande soddisfazione sarebbe stata sviluppare qualcosa che permettesse ai pazienti ticinesi di essere presi a carico sul posto. C’era poi forse anche una certa sete di rivalsa: in Svizzera interna mi sono più volte sentito dire che “il Ticino è bello per fare vacanza, c’è il sole, cantate bene, ma le cose serie si fanno Oltralpe”. Ho voluto dimostrare il contrario.
La sua attività politica – sempre improntata alla volontà di partecipare al tentativo di costruire un movimento socialista combattivo che concentrasse la sua prassi attorno alla lotta di classe e all’anticapitalismo – l’ha vista tra i fondatori di Psa, ‘gruppo critico’, Forum Alternativo, tutto ciò accompagnato da una presenza parlamentare assidua a vari livelli: in Consiglio comunale a Verscio, Muralto, Locarno e Ascona; in Gran Consiglio; in Consiglio nazionale dov’è stato anche capogruppo Ps; e a un passo dal Consiglio degli Stati. Qual è stato il periodo politicamente più felice della sua vita e quello più deludente?
Il periodo in cui mi sono sentito più contento e soddisfatto dello sforzo fatto in politica è stato nei primi quattro anni della mia presenza in Consiglio nazionale, tra il ’95 e il ’99. Sapevo che se si vuole cambiare davvero qualcosa per il Paese è a Berna che bisogna andare. Al Nazionale anche grazie alla mia esperienza scientifica sono stato subito spinto ad assumere grandi responsabilità, come quella di occuparmi della politica sanitaria del Ps svizzero. In quel periodo in diversi, tra cui Dick Marty, pronosticavano perfino che sarei diventato consigliere federale. Allora avevo l’impressione di poter far qualcosa di importante nel settore della sanità, ma mi ero illuso un po’ troppo. Me ne resi conto con la pesantissima sconfitta in votazione popolare sull’iniziativa che avevo elaborato per la cassa malati. Poi quando sono diventato capogruppo devo riconoscere che non ho svolto quel ruolo in modo soddisfacente, per cui mi sono reso attaccabile in più occasioni sia per la mancanza di tempo per farlo come si doveva, sia perché ho cercato di imprimere molto di più la mia visione di sinistra alla mia attività politica a Berna.
Tra i tanti Paesi che ha visitato, ce n’è uno che definisce “mi amor”: Cuba. Quando il 9 ottobre 1967 Che Guevara è stato ucciso in Bolivia, lei è andato a firmare il registro delle condoglianze all’ambasciata cubana a Berna e di fronte ai due impiegati un po’ sorpresi è scoppiato a piangere. Cosa rappresentano per lei quel giovane medico che ha fatto la rivoluzione e Cuba, anche in rapporto agli Stati Uniti di cui lei condanna l’imperialismo?
A Cuba mi sono avvicinato idealmente grazie all’epopea del Che, che sentivo vicino anche perché pure lui era una sorta di medico donchisciottesco. Ma il mio contatto vero e proprio con l’isola è avvenuto attraverso i medici cubani incontrati in Nicaragua che mi hanno invitato nel loro Paese. Subito mi ha colpito l’efficienza del sistema sanitario, incentrato sul medico di famiglia che va regolarmente a visitare le persone a casa se loro non si presentano. Un sistema basato sulla dedizione al paziente che era la realizzazione pratica di quello che io cercavo di fare. E tutto questo nonostante le risorse limitate a causa del tremendo embargo degli Stati Uniti che, mentre Cuba invia i suoi medici ad aiutare nel mondo, esportano armi e distruzione, cercando di imporre con tutti i mezzi le proprie regole. Questa combinazione di fattori, insieme alla resistenza di un Paese tra l’altro estremamente bello e accogliente, mi legata moltissimo a Cuba, che sento come la mia seconda patria.
Ha sempre sognato di avere una famiglia numerosa e ce l’ha fatta con 8 figli – 4 biologici e 4 adottati – e 13 tra nipoti e pronipoti. Nel ritratto di famiglia c’è però un buco, quello lasciato da Nicola, tragicamente annegato nel pozzo di Tegna quando aveva 13 anni. Ne parla in un capitolo molto toccante dicendo che dopo quel 6 agosto 1990 non ha più fatto il bagno nella Maggia, che quando in un film c’è una scena in cui una persona annega chiude gli occhi, che quando qualcuno parla di un qualsiasi Nicola sente una stretta al cuore. Cosa l’ha aiutata a superare l’ansia struggente e l’angoscia soffocante che quasi le impedivano di respirare dopo quel dramma?
Sicuramente l’avere una grande famiglia intorno, così come la solidarietà della comunità, che mi hanno legato ancora di più a questa terra. E poi anche il fatto che mi sono ributtato a lavorare con ancora maggiore intensità, proprio quasi per vendicarmi della morte che mi aveva tolto mio figlio, nel tentativo di salvare il più grande numero possibile di pazienti. Direi che è soprattutto questo che mi ha permesso di convivere con la perdita.
Convinto che la profezia di Rosa Luxemburg sul futuro dell’umanità ‘socialismo o barbarie’ sia valida, lei afferma di credere ancora nella possibilità di una rivoluzione che però non partirà dalla Svizzera, anzi qui vi approderà per ultima, e non sarà un evento, ma un processo lungo per arrivare alla prossima tappa nell’evoluzione umana dopo schiavitù, feudalesimo e capitalismo: quella appunto di una società socialista, più umana, più giusta e più ecologica. Una società del “care”, delle cure. Chi confida sarà il motore di questa rivoluzione?
A breve termine non c’è molto da essere ottimisti di fronte alla crisi geopolitica in atto, che riflette fondamentalmente la crisi del capitalismo. Ma a lunga scadenza ci credo. Ripongo molta fiducia nelle donne, perché sono soprattutto loro che votano a sinistra e per il progresso sociale. E anche perché la società come la vedo io, la società delle cure, è una società più vicina al sentire femminile. Non per niente Trump e in generale le destre fanno di tutto per bloccare il progresso delle lotte femministe, perché le temono. Ho parecchie speranze anche nei giovani, in particolare per la questione climatica. Sì, credo che queste saranno le forze che restituiranno alle prossime generazioni un futuro.